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 2014  agosto 12 Martedì calendario

L’ITALIA POST-FASCISTA CHE CENSURA E IMPRIGIONA GUARESCHI

Lo si cita spesso come unico caso di giornalista finito in galera per avere attaccato il potere politico: è Giovannino Guareschi.
Succede nel 1954 e per l’Italia, che solo da pochi anni respira la libertà di stampa, è uno choc. Guareschi ha 46 anni ed è all’apice della popolarità. È direttore de Il Candido, settimanale satirico che ha contribuito alla vittoria elettorale della Dc nel 1948 con le vignette sui comunisti trinariciuti e con il manifesto «In cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no». È autore di libri di successo e da un paio d’anni i suoi don Camillo e Peppone sono arrivati anche al cinema con i volti di Fernandel e Gino Cervi. La sua fama è ormai internazionale.
Ma il 19 gennaio 1954 è per lo scrittore parmense una data maledetta. Pubblica sul Candido due lettere che Alcide De Gasperi avrebbe scritto al comando degli Alleati dieci anni prima, quando era rifugiato in Vaticano: «Ci è purtuttavia doloroso, ma necessario – si legge in una delle lettere attribuite al leader dc – insistere nuovamente affinché la popolazione romana si decida ad insorgere al nostro fianco, che non devono essere risparmiate azioni di bombardamento nella zona periferica della città nonché sugli obiettivi militari segnalati. Questa azione, che a cuore stretto invochiamo, è la sola che potrà infrangere l’ultima resistenza morale del popolo romano, se particolarmente verrà preso, quale obbiettivo, l’acquedotto, punto nevralgico vitale». È un’accusa gravissima contro De Gasperi: sia pure allo scopo di liberare Roma dai tedeschi, avrebbe chiesto agli angloamericani di bombardare la città.
Guareschi è però scandalizzato soprattutto da un particolare: le lettere sono su carta intestata della Segreteria di Stato di Sua Santità: «Non è un gesto incosciente e stolto: è un vero e proprio sacrilegio. Non è un semplice gesto di uno che tradisce l’ospitalità, è il gesto nefando di un cattolico che tradisce il Santo Padre», commenta.
De Gasperi reagisce. Assicura che quelle lettere sono false e querela Guareschi per diffamazione. Il 12 aprile si apre già il processo, che durerà solo quattro udienze. Invano il direttore del Candido presenta una perizia calligrafica che dichiara autentiche le lettere, e chiede al tribunale di ordinarne pure un’altra d’ufficio: i giudici rispondono che non c’è bisogno di alcuna perizia. Le lettere saranno dichiarate ufficialmente false solo nel 1959, al termine di un altro processo contro alcuni ex ufficiali della Rsi.
Il 15 aprile 1954 Guareschi viene condannato a dodici mesi di carcere. Ma si trova costretto a doverne scontare venti per via di un’altra vicenda che ci appare oggi ancora più incredibile, e che ci riporta indietro di altri quattro anni.
Sul numero 25 del Candido del 1950 appare infatti una vignetta che ritrae il presidente della Repubblica Luigi Einaudi mentre sfila tra due ali di corazzieri molto particolari: sono bottiglie di vino che recano un’etichetta con scritto «Nebiolo – Poderi del Senatore Luigi Einaudi». Si vuole stigmatizzare il fatto che il nome del Capo dello Stato venga usato per fini commerciali. Se la pubblicazione della lettera di De Gasperi è un attacco politico, questa è solo satira, e vista con gli occhi di oggi una satira molto morbida. Ma per qualcuno del mondo politico anche una vignetta così non può restare impunita. Due deputati, il democristiano Giuseppe Bettiol e il socialista Paolo Treves, presentano un’interrogazione alla Camera in seguito alla quale si procede per vilipendio del Presidente della Repubblica contro Carletto Manzoni, autore della vignetta, e Giovannino Guareschi, direttore responsabile del Candido. I due vengono assolti in primo grado ma condannati in appello a otto mesi con la condizionale.
Così, nel 1954 Guareschi deve scontare venti mesi. De Gasperi dichiara al Corriere Lombardo: «Sono stato anch’io in galera e ci può andare anche Guareschi». Ma nella stessa Dc c’è chi capisce che un giornalista dentro può essere più pericoloso di un giornalista fuori. Cominciano così le pressioni perché Guareschi vada in appello, dove la faccenda si potrebbe accomodare. Lui però è un uomo che non scende a compromessi e sul Candido risponde: «No, niente appello». Il 26 maggio 1954 prepara il suo zaino, lo stesso che aveva nel lager in cui lo avevano deportato i nazisti, ed entra nel carcere di Parma. Ne uscirà il 4 luglio 1955 con una carta precettiva che gli impone di non allontanarsi per altri sei mesi dai comuni di Busseto, San Secondo, Soragna, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca.
Fu vittima di una polpetta avvelenata? Molti ne sono convinti, anche se «Guareschi restò persuaso fino alla fine che le lettere erano autentiche», mi dice Egidio Bandini, condirettore del Candido (che proprio in queste settimane ha ripreso le pubblicazioni) e presidente del Club dei Ventitré, l’associazione degli appassionati di Giovannino. Di certo pagò un prezzo altissimo. «Dopo quella vicenda non fu più lui. Tutti lo abbandonarono, solo su La Notte di Nino Nutrizio e sul Borghese poté scrivere qualche articolo», dice ancora Bandini.
Ma anche i rapporti fra satira e politica non furono più gli stessi. Certo la Dc colpì ancora. Nel 1959 ordinò e ottenne l’estromissione dalla Rai di Tognazzi e Vianello per uno sketch sul presidente Gronchi caduto da una seggiola alla Scala; l’anno dopo fece licenziare Enzo Tortora per aver ospitato Alighiero Noschese che scherzava su Fanfani; quindi Dario Fo e Franca Rame, nel 1962, per le scenette a Canzonissima sugli incidenti sul lavoro. Beppe Grillo è stato invece cacciato dalla Rai nel 1986 per una battuta su Martelli e Craxi che vanno in Cina e si chiedono: «Ma qui se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Anche la sinistra ha mostrato più volte di non gradire: ne sa qualcosa Forattini, querelato a ripetizione: nel 1999 D’Alema gli chiese tre miliardi di lire di danni (ai quali poi rinunciò ritirando la causa) per una vignetta in cui lo si vedeva sbianchettare la lista Mitrokhin.
Mai, però, si è arrivati ai quattrocento giorni di carcere di Giovannino Guareschi, l’uomo che forse ha pagato per tutti.
Michele Brambilla, La Stampa 12/8/2014