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 2014  agosto 12 Martedì calendario

ARMI, ALLEATI E DIKTAT DEL CAV. DRAGHI

Un tempo, Mario Draghi, era SuperMario. Oggi, almeno a stare alle reazioni di economisti e politici (Matteo Renzi in primis) al suo gentile diktat della scorsa settimana, forse toccherà rispolverare i vecchi soprannomi: l’Americano, l’Atermico, il signor Altrove, il Prussiano. I soprannomi, d’altronde, vanno e vengono, ma l’agenda del governatore della Bce è rimasta la stessa da quando – estate 2011 – inviava lettere ultimative al governo italiano insieme al suo predecessore Trichet: riforma del lavoro, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazioni anche nei settori più piccoli, privatizzazioni. Il contesto, però, è cambiato.
Queste tipiche politiche per sbloccare l’offerta in una crisi che – come gli ha fatto notare più di un accademico – è di domanda non sembrano proprio una scelta furba. Non solo, in questa crisi la Bce ha clamorosamente fallito i suoi obiettivi: l’inflazione – che secondo il dogma di Francoforte deve stare attorno al 2% – è stabilmente sotto l’1% da più di un anno; l’immissione di mille miliardi nel sistema bancario al tasso dell’1 per cento ha fatto bene ai conti degli istituti di credito, ma l’economia reale non ha visto un euro. Persino un rotondo sostenitore dell’euro come l’economista Gustavo Piga ha sostenuto sul suo blog: «A volte penso che un tedesco alla guida della Bce farebbe meglio: almeno non dovrebbe passare la vita, come Monti o Draghi, a dimostrarsi più tedesco dei tedeschi».
Il rapporto privilegiato con la Germania è anche il motivo per cui, in un braccio di ferro con Renzi, non è detto affatto che sia Draghi a rimanere sul campo. Quello e i cannoni che comanda: alla fine dell’estate 2011, mentre lui stava diventandone governatore, la Bce semplicemente smise di comprare titoli italiani sul mercato secondario quando ritenne che Silvio Berlusconi non avrebbe obbedito ai diktat della famosa lettera del 5 agosto. Risultato: spread altissimo per mesi e defenestrazione dell’ex Cavaliere.
Lui invece, nel senso di Draghi, Cavaliere lo è ancora, titolo che somma a una caterva di altre onorificenze, e sembra proprio che sia di nuovo entrato in rotta di collisione con un premier italiano. A Palazzo Chigi dovrebbero cominciare a preoccuparsi: se Renzi è, infatti, un parvenu nella grande politica e nei circoli internazionali, Draghi con quell’ambiente è nato a un parto.
Classe ’47, liceo dai gesuiti, laurea a Roma con Federico Caffè e specializzazione al Mit di Boston con Franco Modigliani e Robert Solow. Entra al Tesoro nel 1983 come consigliere del ministro Giovanni Goria (governo Craxi), poi va alla Banca mondiale e torna a via XX settembre nel 1991: ne sarà direttore generale per un decennio con esecutivi d’ogni tipo. Fu lui il padre – oltre delle privatizzazioni non proprio felici dei primi anni Novanta – delle riforme del settore del credito in Italia, compresa quella che abolì il divieto di commistione tra banche commerciali e banche d’affari, introdotto in tutto il mondo dopo la Grande Crisi del 1929 (in Italia lo scrisse Donato Menichella, che lavorò con suo padre Carlo). Poi, nel 2001, il passaggio a Goldman Sachs e l’arrivo in Banca d’Italia (2006) e alla Banca centrale europea (2011). Quando Draghi parla, insomma, è un intero humus culturale e d’interessi che apre bocca: Renzi è avvertito.
Marco Palombi