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 2014  agosto 12 Martedì calendario

LA GEOGRAFIA DELLE ALLUCINAZIONI

Siamo figli del nostro tempo e della nostra cultura. E continuiamo a esserlo anche se siamo colpiti da una malattia mentale. A leggerle con attenzione sono buone notizie e arrivano da una singolare ricerca di un’antropologa di Stanford, Tanya Luhrmann, che ha viaggiato per il mondo incontrando malati psichiatrici di paesi diversi. In particolare l’antropologa si è concentrata sulle “voci” della schizofrenia, le allucinazioni tipiche della malattia che fanno “sentire” frasi che esistono solo nella testa del paziente. E avrebbe mostrato che il contenuto di queste frasi è diverso a seconda della nazionalità, con gli americani che sentono voci minacciose e malevole e gli africani e gli indiani accompagnati da voci più giocose e benigne. Sempre allucinazioni sono, sottolinea la ricercatrice, ma aver visto che sono così diverse da una cultura all’altra potrebbe cambiare le prospettive sulla malattia e, in senso più generale, sulle influenze sociali sul nostro cervello.
Per osservarlo Tanya Luhrmann è partita dalla California e ha viaggiato in India e in Ghana, e ha poi pubblicato sul British Journal of Psychiatry i risultati delle sue interviste a sessanta pazienti con diagnosi di schizofrenia in cura negli Stati Uniti, a Chennai e ad Accra. Ai pazienti ha chiesto «se sapessero a chi appartenevano le voci, se si trattasse di monologhi o di conversazioni, se ci fosse qualcosa di fastidioso o se invece avessero avuto esperienze positive, e se le voci talvolta parlassero di sesso o di Dio», spiega Luhrmann.
All’inizio non si è rilevata nessuna grande differenza: tutti i pazienti hanno riferito di sentire voci buone e voci cattive e a volte bisbigli non collocabili nello spazio. Ma mentre africani e indiani hanno raccontato soprattutto esperienze tranquillizzanti e positive, per gli americani le voci erano sempre un bombardamento molesto, a volte una vera tortura, e non si poteva attribuirle a nessuno: erano misteriose e cattive.
Non solo: per gli americani le voci interiori sembravano essere chiaramente attribuibili a un problema medico, o psichiatrico, o fisico. Mentre per gli indiani si trattava spesso di voci familiari o di spiriti magici, oppure voci giocose e a volte fissate col sesso. E in Ghana, dove sono diffuse le credenze sulla presenza di spiriti invisibili capaci di muoversi e parlare, le persone colpite da psicosi hanno riferito di essere in contatto con le divinità.
Queste differenze, sottolinea Luhrmann, possono trovare una spiegazione nel modo in cui pensiamo a noi stessi nella collettività: gli occidentali (non solo gli americani) hanno molto più senso della propria identità e dell’affermazione personale, mentre in altre culture si tende a considerarsi in connessione con gli altri, come fili di una grande rete sociale. Così le voci che emergono nelle psicosi degli occidentali sono vissute come intrusioni nella vita privata, mentre in Africa e in Asia sono più facili da accettare.
Le conseguenze sul piano clinico sono importanti, sottolinea Luhrmann. Ed è qui che viene fuori la buona notizia. Aver osservato quanto cambiano i loro caratteri significa aver capito che «le voci aggressive e violente così comuni negli occidentali potrebbero non essere inevitabili». Anzi: potrebbero essere evitate, con contromisure non farmacologiche come la costruzione di un nuovo dialogo interiore. Siccome per le psicosi la terapia spesso non riesce a eliminare del tutto le allucinazioni, l’osservazione di Luhrmann potrebbe avvalorare i tentativi di educare la persona schizofrenica a convivere con le voci, a farci quasi amicizia, e, dall’altra parte, a “educare” le voci a non disturbare più i fragili pazienti occidentali.
Silvia Bencivelli