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 2014  agosto 12 Martedì calendario

NELLA TRINCEA DEL KURDISTAN “NOI PESHMERGA, ULTIMO MURO CONTRO IL TERRORE ISLAMISTA”

MAKHMUR (TURKMENISTAN IRACHENO)
Esultano i peshmerga delle retrovie, dal fornaio Shoresh alla studentessa Halin all’operaio Rustom. Due giorni fa, questi combattenti curdi, partiti a difendere la loro terra con il petto in fuori ma senza il minimo addestramento militare, hanno vinto la prima battaglia della loro vita. Spalleggiati dai caccia e dai droni statunitensi, hanno infatti liberato Makhmur, città caduta la settimana scorsa nelle mani dei guerriglieri dello Stato islamico, a soli trenta chilometri dalla capitale della provincia autonoma del Kurdistan iracheno, Erbil. La testa avvolta in un turbante e gli ampi pantaloni stretti alla caviglia, il patriota e fornaio Shoresh è consapevole di quanto sia stato decisivo l’intervento americano. «Gli jihadisti sono meglio equipaggiati di noi peshmerga, perciò senza i raid statunitensi oggi sarebbero forse già arrivati a Erbil. Ci sono state promesse armi più moderne e artiglieria più pesante, al momento però non ho ancora visto nulla, perciò devo ancora accontentarmi di lui», dice l’uomo, accarezzando il suo vecchio kalashnikov.
Quando ci avviciniamo alla linea del fronte, alla periferia meridionale di Makhmur, quella che affaccia sul deserto, la musica cambia di botto. Qui, irreggimentati da una marziale disciplina i combattenti si muovono tra le ultime case della città con estrema circospezione, trotterellando da un luogo all’altro con il dorso piegato, per fermarsi di tanto in tanto a scrutare l’orizzonte di sabbia. Per cancellare lo spaventoso ricordo delle bandiere nere issate dagli islamisti nei giorni scorsi, oggi sventolano ovunque i vessilli del Kurdistan iracheno. Ma lungo le strade di Makhmur ancora non vedi nessuno, salvo i combattenti curdi alla ricerca di possibili cecchini o di mine anti-uomo nascoste dagli islamisti.
Il capitano Hozan Farhad, che nel 2003 partecipò alla caccia e alla cattura di Saddam Hussein al fianco dei marines, seduto davanti a una grossa mitragliatrice, spiega l’importanza della riconquista di Makhmur: «Ci consente di approvvigionare le nostre truppe a Kirkuk, dove ci siamo posizionati in massa lo scorso giugno
quando gli insorti si erano appropriati della sua provincia per mettere le mani sugli importanti giacimenti petroliferi ». Ma da buon militare qual è, il capitano Farhad cerca adesso di prevedere le prossime mosse dello Stato islamico, non senza maledire le potenze occidentali per il colpevole ritardo con cui stanno intervenendo nel nord dell’Iraq. Dice: «È stato un errore lasciare avanzare il nemico jihadista fino alle porte di Erbil. Ma più grave ancora è stato lasciargli prendere Mosul, seconda città del Paese, e impadronirsi dei suoi importanti depositi di armi, perché già forte di lanciagranate e mezzi blindati, da allora dispone anche di mortai, di centinaia di veicoli militari e di alcuni elicotteri». Non solo, a Mosul i guerriglieri hanno anche scassinato indisturbati le casseforti delle sue banche. E lì hanno trovato i soldi con cui arruolare, man mano che continuava la loro avanzata, quelle tribù sunnite discriminate e represse dal potere centrale di Bagdad, esercitato fino a ieri dallo sciita Al Maliki. Del resto, la prodigiosa campagna militare dello Stato islamico, in particolare nella piana di Ninive, è stata possibile proprio grazie all’aiuto di queste tribù, a cui era stato ordinato di sparare alle spalle dei peshmerga venute a proteggerle. «Ci siamo trovati spesso tra due fuochi, e siamo stati perciò costretti a ritirarci», aggiunge il capitano.
Da sabato scorso, tuttavia, rinvigoriti dall’inizio dei bombardamenti aerei americani, i peshmerga hanno lanciato la loro controffensiva. «Che faranno gli insorti adesso che lo zio Sam ha deciso di aiutarci? Semplice: cercheranno di difendere il loro bottino e di fortificare i loro appostamenti. E potranno sempre ricorrere al- la strategia che conoscono meglio, quella della guerriglia urbana », dice Yalmaz Heso, un giovane combattente e attivista del Partito democratico curdo che troviamo a proteggere un incrocio di Makhmur a bordo di un nuovissimo pickup. «Il voler sfondare verso quel paradiso di pace che è Erbil è stato il primo errore tattico compiuto dall’auto-proclamato califfo Abu Bakr Al Baghdadi e dai suoi uomini, forse ubriacati dai tanti successi militari dei mesi scorsi. Ma non potevano ignorare la quantità di interessi internazionali, soprattutto legati al petrolio, che s’intrecciano nella capitale curda. La pagheranno cara», prevede Heso.
Tre giorni fa, quando tre camion militari sono sbucati dal granaio di una fattoria abbandonata, e hanno cominciato a dirigersi verso Makhmur, due caccia statunitensi si sono improvvisamente materializzati in cielo e li hanno centrati. La mattina dopo, tra le lamiere bruciacchiate e contorte dei veicoli, c’erano i peshmerga a festeggiare. Ma un proiettile di mortaio, sparato chissà da dove, li ha subito fatti retrocedere in città, senza che stavolta si palesasse nessun aereo. Del resto, gli stessi generali americani hanno dichiarato che gli obiettivi dell’operazione in corso sono limitati, e che questa ha un solo scopo: proteggere il personale statunitense a Erbil. Per questo forse, protetto dalla mitragliatrice del capitano Farhad, ieri un grosso scavatore è uscito da Makhur e dopo aver percorso duecento metri nel deserto ha cominciato a erigere un muro di sabbia per proteggere i combattenti in caso di un nuovo attacco jihadista. Già, perché se i peshmerga delle retrovie gioiscono, quelli in prima linea sanno bene che il nemico è ancora fortissimo, e sempre in agguato.
Pietro Del Re, la Repubblica 12/8/2014