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 2014  agosto 12 Martedì calendario

COSÌ IL CAOS DI BAGHDAD «AIUTA» L’AVANZATA DEL CALIFFO

ERBIL.
Il sudore cola dai caschi dei peshmerga che sulla strada di Mosul scrutano le postazioni nemiche dei jihadisti. Fa caldo, oltre quaranta gradi, e i volti dei soldati sono tesi: su questo nastro d’asfalto a sud ovest di Erbil corre la linea del fuoco tra il Califfato e i curdi. Ma questo fronte è anche molto di più. I jihadisti vogliono insediare lo stato islamico, mentre i curdi nel crollo dell’Iraq intravedono la costruzione del loro stato indipendente, come gli fu invano promesso un secolo fa dalle potenze coloniali.
Se a Baghdad nella Green Zone tira aria di golpe, a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, si teme la cospirazione della quinta colonna araba, dopo che le forze speciali hanno scovato in città armi forse destinate alle milizie dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) di Abu Bakr al Baghdadi.
«Il vero pericolo è l’infiltrazione dei commando suicidi», dice Farangh, uno dei volontari della diaspora curda rientrati in patria per arruolarsi.
L’Iraq va in frantumi e il governo centrale è dilaniato dalle lotte interne tra il premier sciita Nouri al Maliki e il presidente curdo Fouad Masoum. Maliki ha mostrato i muscoli schierando le sue truppe a poche centinaia di metri dalla più grande ambasciata Usa del mondo mentre la Coalizione nazionale lo esautorava nominando come successore Haider al Abadi, ingegnere, ex ministro di Allawi, vice speaker del Parlamento, che ha subito lanciato dagli schermi un appello all’unità del Paese contro l’avanzata del Califfato. Maliki, a lungo sostenuto dall’Iran, si è trovato contro il segretario di stato John Kerry e anche uno sciita eccellente, il Grande Ayatollah di Najaf, Alì Sistani. Ma a Baghdad "chi controlla chi" ormai è un aggrovigliato rompicapo.
Una confusione che potrebbe spingere l’Isil a tentare un colpo di mano: l’unica alternativa al caos è armare i curdi come chiede il presidente Massud Barzani, prima che sia troppo tardi.
La fortezza ottomana di Erbil, soffocata da colate di cemento come a Dubai, che appariva come il simbolo quasi inespugnabile del nuovo Kurdistan petrolifero adesso sembra l’ultima fragile barriera contro l’avanzata dello sciame nero del Califfato: basterà l’aiuto dal cielo dei caccia americani a fermare le milizie? Quasi sicuramente non è sufficiente a salvare la pelle agli yazidi intrappolati nelle montagne di Sinjan: 20mila sono riusciti a fuggire ma per aprire un corridoio umanitario bisogna mettere le truppe a terra - mossa che Barack Obama neppure contempla - altrimenti lasciare che ci pensino i peshmerga.
Eppure qui in Kurdistan gli americani, prima di andarsene nel 2011, erano presenti in forze. Gli Stati Uniti nella guerra in Iraq hanno speso 1.700 miliardi di dollari (in un conflitto con almeno 200mila vittime), uno dei peggiori investimenti bellici della storia se adesso oltre un terzo del territorio è in mano al Califfato che con molti meno soldi sta attuando quello che intendeva fare George Bush jr: ridisegnare la mappa del Medio Oriente. Confina per mille chilometri con Kurdistan e Turchia e controlla metà Siria, pozzi petroliferi compresi.
E soprattutto i jihadisti si sono impadroniti della diga di Mosul, la più grande del Paese, con cui possono ricattare anche Baghdad, minacciando di farla tracimare. Si dice che siano folli ma hanno metodo: la centrale di Mosul ha ripreso a funzionare distribuendo l’elettricità che prima arrivava poche ore al giorno. Sono crudeli ma cercano anche di catturare le simpatie della popolazione, almeno di quella sunnita.
Nella base di Kirkuk, chiamata la Gerusalemme curda, c’erano un tempo 5mila marines: adesso sono di guardia i peshmerga, dopo che l’esercito iracheno è fuggito a gambe levate abbandonando le armi, qui come a Mosul e in altre città cadute quasi senza combattere. L’esercito di Baghdad, sulla carta 250mila uomini ma presente più sul libro paga che sul campo di battaglia, si è liquefatto. A metterlo in fuga non sono state le pallottole, è bastata la notizia che stavano per arrivare le milizie del Califfato.
«La verità è che la guerra civile tra sciiti e sunniti non si è mai fermata dal 2003 e gli ex baathisti sono il vero cervello di questa offensiva del Daesh, lo Stato Islamico», afferma il governatore di Kirkuk, Omar Karim, che ha fatto scavare una trincea intorno alla città nella speranza di evitare l’invasione.
Lo sgretolamento è iniziato nel momento stesso che gli americani sono entrati a Baghdad, dando la caccia ai baathisti sunniti e sciogliendo le forze armate: qui il Paese ha iniziato a inabissarsi in una guerra civile dalla quale non si è mai risollevato neppure quando il generale Petraeus si inventò l’alleanza contro Al Qaeda accordandosi con le tribù sunnite.
È stata la frammentazione dell’Iraq, di cui hanno approfittato anche i curdi per esportare in Turchia il loro petrolio, che ha permesso allo Stato islamico di conquistare Mosul, di estendersi dalla Siria fino ai governatorati di Niniveh e Al Anbar, stringendo in un abbraccio mortale le province di Salahaddin e di Diyala e quindi assediando la stessa Baghdad.
È questa una versione della storia che mette in rilievo le connivenze con l’Isil delle tribù sunnite, esasperate da un governo sciita ritenuto corrotto e percepito come strettamente dipendente dall’Iran.
Ma le capacità militari, organizzative e finanziarie del nuovo Califfato da dove vengono? L’Isil nasce dalla branca irachena di Al Qaeda fondata dal giordano Musab Al Zarqawi che dopo la sua uccisione nel 2007 si è trasformata dal 2010 nello Stato Islamico dell’Iraq.
La vera svolta si è avuta con la guerra in Siria quando Abu Baqr al Baghdadi, fino ad allora un leader secondario nella cosmogonia jihadista, ha intuito come saldare il conflitto siriano a quello iracheno facendo leva sul risentimento sunnita: da una parte il regime minoritario alauita di Bashar Assad, dall’altro quello sciita di Baghdad, tutti e due alleati di Teheran e degli Hezbollah libanesi.
Più o meno consapevolmente tutti hanno aiutato il Califfo Ibrahim (il vero nome di Baghdadi, originario della famiglia Badri di Samarra). La Turchia lasciando aperte le frontiere in Siria al reclutamento dei combattenti, le monarchie del Golfo appoggiando il tentativo di rivincita sunnita in funzione anti-iraniana, il governo di Baghdad perseguendo dissennate politiche discriminatorie nei confronti dei sunniti. Mentre l’Occidente continuava a non voler capire, alla vana ricerca di gruppi moderati da sostenere già da tempo spazzati via dagli estremisti.
Persino la vecchia Al Qaeda ha perso la partita: sempre più militanti provenienti da ogni parte si arruolano con il Califfo di successo, ormai capace di autofinanziarsi.
Ma alla Chiesa caldea di Saint Joseph a Erbil questi alati ragionamenti non interessano: centinaia di profughi si ammassano ovunque, curdi, cristiani, yazidi, uomini, vecchi, donne, bambini. Bevono e si lavano a una sola fontana. Generazioni sopravvissute ad altre guerre, prima quelle di Saddam, poi degli americani, e ora in fuga dal nuovo Califfo: forse dobbiamo loro qualche cosa di più di una spiegazione.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 12/8/2014