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 2014  agosto 12 Martedì calendario

MADIA: «MAI PIU’ L’ITALIA DEI VETI»

«Nessuno potrà dirci "qui non met­tete le mani". Questo no, questo mai. Questo governo ha fatto un patto vero con il Paese e nessun settore può dirsi intoccabile». Una pausa leggera prece­de il nuovo messaggio: «La riforma della Pubblica amministrazione sarà una vera ri­voluzione e i veti non saranno più accetta­ti». Marianna Madia guarda a settembre, alla ripresa dell’attività parlamentare, al dibattito che si aprirà a palazzo Madama e parla a forze politiche e sindacati: «Vor­rei un contributo di arricchimento, una partecipazione larga. Mi aspetto idee dal­la commissione Affari costituzionali. Non servono chiusure e posizionamenti tattici». E allora? «Allora tutti possono contribuire e il testo può ancora migliorare. Ma una sola cosa deve es­sere chiara: nessun rinvio sine die, questo governo le leggi le scrive e le rende operative. Con noi non muoio­no in Parlamento, con noi arriva­no alla meta». È un messaggio chiaro, netto. Madia lo ripe­te con parole diverse: «Vo­glio chiudere entro dicem­bre, ma se ci fosse un atteggiamento costruttivo e ser­visse un mese in più siamo pronti».
Siamo al piano nobile del ministero della Funzione Pubblica. I corridoi sono quasi deserti. C’è silenzio, ma il ministro è ancora al lavoro, solitaria: regala un sorriso leggero e, legando la riforma del Senato a quella della P.A., ri­lancia la linea del confronto co­struttivo. «Si può fare opposizione a tutto, ma i no, i distinguo devono sempre servire per costruire. Al Sena­to ho visto posizioni in dissenso, ma con con una loro luminosità. Calderoli ha contribuito a scrivere una bella pagina di democrazia, ma i Cinque Stelle? Che hanno fatto i parlamentari di Grillo?».
Una nuova pausa precede il messag­gio che assomiglia a un appello: «La rifor­ma della P.A. cambierà la vita delle per­sone. I Cinque Stelle non facciano l’er­rore che hanno fatto sul Senato, non si sottraggano al confronto. È invece ora che entrino in gioco: mi aiutino a fare meglio perchè questo Stato è an­che dei loro figli». Parliamo per cen­to minuti con il ministro della Fun­zione pubblica. Dell’Italia e dell’Eu­ropa. Delle riforme fatte e di quelle da fare. E anche di Moody’s che ve­de grigio sul futuro dell’Italia. Ma­rianna Madia non ci sta e lo dice scommettendo sul Paese e sul go­verno: «Noi crediamo nell’Italia come grande Paese dell’Europa avanzata. La stiamo tirando fuo­ri dal pantano; la stiamo aiutan­do a fare uno scatto in avanti. E quando racconto le sfide del go­verno, lo faccio sempre decli­nando due parole: tenacia e spe­ranza. Vorrei davvero che emer­gesse che ce la stiamo mettendo tut­ta e che alla fine ce la faremo».
A settembre si parte in Senato con il dise­gno di legge delega, ma c’è un decreto già approvato. Quando partiranno davvero il dimezzamento dei permessi sindacali e la mobilità obbligata?
«Il decreto è servito per alcuni interventi ur­genti, fra i quali quelli volti a ridurre l’ec­cessiva disuguaglianza che era ormai dive­nuta normalità. C’è bisogno di equità ed e­quilibrio sociale, il tetto agli stipendi è stato solo un passo: non ci può essere una così in­giusta differenza tra chi guadagna di meno e chi di più. Ma ora si va avanti. Il dimezza­mento di distacchi e permessi sindacali par­te dal 1° settembre, anche per allinearlo al­la scuola. Andiamo avanti sin da subito an­che sulla mobilità. Qui servono le tabelle di equiparazione per determinare la qualifica e la retribuzione del lavoratore che viene tra­sferito. Andavano già fatte da anni, ora le fa­remo sentendo i sindacati e la Conferenza Stato-Regioni, ma se non dovessimo trova­re un accordo, andrò avanti da sola».
È un nuovo colpo alla concertazione?
«La concertazione non può più essere un fre­no, non può bloccare le cose che vogliamo fare. Collaborazione e confronto sono fon­ma niente resistenze pregiudi­ziali. Noi siamo liberi e questa libertà ci dà un’incredibile forza per sfidare chi si op­pone al cambiamento. Chi preferisce l’immobilismo lo fa perché difende quei privilegi che noi vogliamo cancellare. E per centrare l’obiettivo vogliamo sve­gliare quella parte del Paese addor­mentata».
È una sfida ai sindacati? Sono lo­ro che vogliono l’immobilismo?
«I sindacati non sono un corpo u­nico che ragiona in modo uni­co. Sulla riforma della Pa ab­biamo fatto un mese di con­sultazione pubblica e abbia­mo ricevuto 40mila mail, al­cune anche da sindacalisti. Il sindacato stesso, mentre su alcuni temi presentava po­sizioni univoche, su altri ha offerto contributi arti­colati anche in maniera spontanea, indicandoci punti critici sui quali in­tervenire».
Sull’articolo 18 Alfano in­siste per toglierlo...
«Noi dobbiamo uscire da un modo conformista di affrontare i problemi, e questo vale anche per il mercato del lavo­ro. Non dobbiamo piantare bandierine, dob­biamo governare e farlo con coraggio che, come ha detto domenica agli scout il cardi­nale Bagnasco, è proprio l’opposto del conformismo. Non ha senso fare una di­scussione retorica art. 18 sì o no, sganciata da politiche di sviluppo e nuove tutele so­ciali. Il nostro vuol essere davvero un gover­no di rottura».
E Alfano?
«Questo è un governo del noi, superare il conformismo è un esercizio quotidiano per tutti. Per Alfano e per Madia. Ai precari del­la mia generazione non interessano i posi­zionamenti politici e le piccole tattiche, lo­ro guardano il ’Jobs act’ del ministro Polet­ti nella sua visione complessiva. Cosa suc­cede se perdi il lavoro? Lo Stato deve pren­derti per mano non in modo assistenziale, ma accompagnarti verso una nuova occu­pazione».
Oggi non è così.
«Fino ad oggi non è stato così, ma domani lo sarà. Precario viene dal latino precarius, ’co­lui che prega’. E l’idea che un giovane deb­ba sempre pregare per ottenere qualcosa è inaccettabile. Come è inaccettabile la man­damentali, canza di certezze dei giovani, costretti a fa­re i conti tutti i giorni con questa terribile in­sicurezza. È un obbligo voltare pagina».
Lei insiste molto sui giovani. Ma non c’è an­che un problema generale di ’costruzione’ della carriera in Italia? Da noi si guadagna poco da giovani e tanto da vecchi, quale che sia il merito.
«È vero, esiste questo aspetto. Per questo nel­la Pa, che è la più grande azienda del Paese, abbiamo deciso che è il momento di inver­tire lo schema. La riforma della dirigenza è un aspetto centrale della riforma, vogliamo costruire un ruolo unico della dirigenza pub­blica dove nessuno ha più una carriera au­tomatica, cosa che è l’opposto di quello che serve in Italia».
Ora si volta pagina?
«Sì, il dirigente sarà valutato e se avrà fun­zionato potrà crescere, altrimenti potrà an­che non essere rinnovato nell’incarico. Ba­sta, insomma, con gli automatismi legati al­l’anzianità; l’idea è avere una carriera che si presta anche a dei possibili saliscendi, dove merito e retribuzione si leghino ancor di più».
Ma qual è il vero obiettivo della delega?
«Agevolare il cittadino, che non deve più pie­garsi a tempi, modi e condizioni dell’ammi­nistrazione che spesso sono vessatori. Digi­talizzazione e semplificazione sono nostre sfide centrali».
Questi sono slogan usati anche dagli ulti­mi esecutivi. Qual è la differenza?
«Qui c’è un governo che ogni giorno ha la te­sta su questi temi. Qui ogni giorno si fa il punto sullo stato di avanzamento della di­gitalizzazione. La responsabilità dell’attua­zione è politica e non amministrativa. Que­sta è la differenza. Vogliamo superare lo scar­to fra gli annunci e la realtà. Vi posso rac­contare un aneddoto».
Prego...
«Un precedente governo annunciò i cambi di residenza on-line. A me è successo di cam­biarla: provai a farla on-line e non ci riuscii. Il risultato: dovetti andare fisicamente tre volte al municipio, un’odissea».
Succederà anche a voi?
«Dico che abbiamo mille giorni prima di fa­re un bilancio. Ma fra tre anni la Pa sarà di­versa, altrimenti avremo fallito».
Lei come ministro o il governo?
«Renzi usa il noi: si vince o si perde insie­me, in questo siamo davvero comunità e la nostra forza politica viene anche da questo».
A proposito di annunci: quello di San Mat­teo, cioè il 21 settembre come termine per pagare alle imprese 68 miliardi di debiti ar­retrati della Pa, sembra già fallito, o no?
«Non sono sicura che si fallirà. Comunque potevamo mettere o no delle scadenze, è u­na strategia che abbiamo voluto. Come go­verno abbiamo solo da perdere, se fossimo furbi non lo faremmo. Ma serve per impri­mere una marcia veloce. Prendiamo il Se­nato: le scadenze ci hanno aiutato a chiudere l’8 agosto».
Ma ritiene più decisiva la partita da gioca­re in Italia, con tutte le riforme da fare, o quella in Europa, che deve concederci gli spazi per poterle realizzare queste riforme?
«Penso che Italia e Europa vanno insieme, e sarebbero dovute andare insieme già da tan­to tempo. Essere entrati in questa crisi, nel 2008, con l’Europa ancora indietro sul pia­no della costruzione politica certamente non ha aiutato nessuno, noi paghiamo questo prezzo. Gli italiani della mia generazione so­gnavano da anni di camminare a passi ve­loci verso una ’cessione di sovranità’ al­l’Europa, meglio tardi che mai. Ma ci sono vari tipi di cessione. Noi la vogliamo sulla di­fesa, sull’immigrazione, sulla politica este­ra, su quelle sociali con un ’Social compact’ che affianchi il ’Fiscal compact’. Ma non vogliamo un’Europa che declassa i Paesi. Vo­gliamo un’Unione che sia una vera unione. Europa politica significa anche accettare di cedere quote di sovranità, che non vuol di­re però farsi imporre i contenuti dell’agen­da nazionale».