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 2014  agosto 12 Martedì calendario

STATUTO DEI LAVORATORI, DECLINO DI UN TOTEM

COSÌ IL MITO DELLA SINISTRA È FINITO ROTTAMATO –

LA STORIA
MILANO Inevitabilmente l’articolo 18 fa pensare al Circo Massimo. Che in un giorno drammatico del marzo 2002 (Marco Biagi era stato da poco ucciso dalle Brigate Rosse) si riempì all’inverosimile di bandiere della Cgil e di striscioni: «Siamo più di tre milioni» annunciarono i dirigenti del sindacato rosso, Sergio Cofferati in testa. Poi, come sempre, ci furono discussioni infinite sull’effettivo numero dei presenti, ma tant’è: nella memoria quella è rimasta la manifestazione dei tre milioni, la più partecipata di sempre della nostra storia repubblicana.
L’articolo 18 ormai ha qualche capello bianco, la sua data di nascita coincide con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, maggio 1970. Dunque ha compiuto 44 anni. Ma è stato solo in quel giorno del marzo 2002, al Circo Massimo, che è diventato a tutti gli effetti un totem della sinistra italiana. La Cgil convocò la manifestazione per dire che «l’articolo 18 non si tocca» e la partecipazione fu tale da convincere tutti che quella era una bandiera da difendere a ogni costo, un punto d’arrivo dal quale non sarebbe stato possibile retrocedere, pena lo svilimento dei propri ideali.
PRIME CREPE CON LA FORNERO
Poi le cose non sono andate proprio così. Tanto che lo stesso Cofferati, non più tardi di un anno fa, di fronte all’ennesima proposta di abolire l’articolo della discordia, ha fatto spallucce: «L’articolo 18 non c’è più». In effetti qualche modifica è arrivata durante il governo Monti con la riforma Fornero. L’impianto principale, tuttavia, esiste ancora. Semmai è mutato il modo di parlarne, specie a sinistra. L’afflato di un tempo è solo un ricordo. E anzi: perfino il ministro Poletti, che arriva dalla Lega della Cooperative, a inizio luglio è arrivato a dire che «non è un totem».
La madre di tutte le battaglie, dunque, in dodici anni si è ridotta al rango di «argomento di cui discutere», o nel migliore dei casi «tema da affrontare nell’ambito di una riforma più globale». Fuori dal politichese: non c’è più nessuno (o quasi) disposto a spaccarsi le ossa per difenderlo. Del resto, perfino Pier Luigi Bersani quand’era segretario del Partito Democratico ne aveva in qualche modo ridimensionato la portata simbolica: «Il 95 per cento delle imprese italiane ha meno di quindici dipendenti, che quindi non sono tutelati dall’articolo 18». Come a dire: che ne parliamo a fare?
POMO DELLA DISCORDIA
Eppure c’è stato un tempo in cui pareva che fosse uno spartiacque: da una parte lo stato di diritto e dall’altra una giungla senza tutele (se visto da sinistra). Oppure: da una parte un mercato del lavoro dinamico e dall’altra la paralisi dell’occupazione (se visto da destra). Non a caso a tentare di ammainare con la forza la bandiera dell’articolo 18 fu Silvio Berlusconi insediatosi a Palazzo Chigi nel 2001 in compagnia di Bossi. A sentire lui e i suoi ministri era una questione di vita o di morte, un toccasana per ridare slancio all’economia e assestare un colpo letale al «conservatorismo della sinistra che frena l’Italia».
Per quasi un anno non si parlò praticamente d’altro, mentre il resto del mondo faceva i conti con la strage delle Torri Gemelle. Tremonti andava in tv a ciclo continuo per contestare il sindacato e i Ds che «tutelano i privilegi di pochi», quegli altri replicavano che si voleva smantellare il welfare mettendo sul lastrico milioni di lavoratori. Il braccio di ferro si concluse al Circo Massimo, come s’è visto. E nonostante i proclami del momento («Il governo andrà diritto per la sua strada») Berlusconi temendo l’esplosione di un conflitto sociale fece cadere la cosa con la strategia del silenzio.
Qualche anno dopo, lo stesso Cavaliere mise la sordina a un nuovo tentativo della sua coalizione di rimettere mano all’articolo 18: «Non è un argomento che giustifica una battaglia politica». E la cosa finì lì. Non finì invece per la sinistra, specie quella più estrema. Bertinotti in cerca di visibilità nel 2003 sudò le sette camicie (si fa per dire) per raccogliere le firme è indire un referendum finalizzato a estendere il divieto di licenziamento senza giusta causa anche alle aziende con meno di quindici addetti: un modo per tenere caldo il tema che aveva garantito una vittoria di piazza alla sinistra.
IL REFERENDUM FALLITO
Il problema fu che gli italiani disertarono le urne, il quorum rimase una chimera (poco più del 25 per cento dei votanti), e la proposta non passò. Anche a dimostrazione del fatto che l’argomento era assai meno sentito di quanto facessero immaginare le tetragone prese di posizione degli ex comunisti.
Malgrado il fallimento del referendum, anche negli anni successivi (fino ad oggi) c’è chi ha periodicamente guadagnato un po’ di celebrità ingaggiando una disputa sulla necessità di cancellare la legge o di rafforzarla. Solo che nel frattempo sono venute meno le certezze e la voglia di andare allo scontro, da una parte e dall’altra. A considerare l’articolo 18 intoccabile non è rimasto quasi più nessuno. Adesso l’atteggiamento più diffuso è un altro: meno se ne parla, meglio è.