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 2014  agosto 12 Martedì calendario

VIA IL TABÙ, MA NELLA REALTÀ PER I GIOVANI GIÀ NON VALE


Articolo 18, ci risiamo. Si può anche pensare che dietro la richiesta del Nuovo centrodestra di eliminarlo per i «nuovi assunti» ci sia la necessità di Angelino Alfano di dare più visibilità al suo partito. Sbaglierebbe però il governo a non affrontare una seria discussione sul tema. Non solo perché Ncd fa parte della maggioranza. Ma soprattutto perché la Regolamentazione dei licenziamenti non è stata risolta al meglio dalla riforma Fornero del 2012, che pure ha avuto il merito di affrontare per prima il tabù. Ma è sfociata in un groviglio di norme di difficile interpretazione e ad alto rischio di contenzioso, fonte di incertezza sia per le imprese sia per i lavoratori.
La materia è controversa, lo sappiamo. I difensori dell’articolo 18 ritengono che togliendolo verrebbe meno una tutela fondamentale per i lavoratori contro eventuali soprusi del datore di lavoro, aprendo scenari di precarizzazione di massa, con effetti negativi sull’economia. E sostengono che le aziende non assumono perché possono licenziare, ma solo se la domanda tira. I contrari all’articolo 18, invece, osservano che esso non può essere un diritto fondamentale se protegge meno di 10 milioni di lavoratori e ne lascia fuori altri 7 milioni (quelli delle aziende fino a 15 dipendenti e quelli con contratto a termine). E sono convinti che l’eliminazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro (tranne che nei licenziamenti discriminatori) spingerebbe le aziende ad assumere di più e migliorerebbe la produttività attraverso un effetto deterrenza su lavativi, assenteisti e imboscati. A quest’ultimo argomento i difensori dello Statuto oppongono la tesi che la produttività aumenta formando e fidelizzando i lavoratori. I contrari ribattono che le aziende comunque non si priverebbero dei lavoratori bravi sui quali hanno investito.
Sarebbe bene però che il dibattito circoscrivesse con esattezza l’oggetto del contendere. Oggi, oltre che per i lavoratori delle piccole imprese, l’articolo 18 non esiste più di fatto neppure per i giovani, i «nuovi assunti» di cui parla Alfano. I quali, dopo il decreto Poletti, possono essere assunti dalle aziende liberamente (cioè senza indicare la causale) con contratti a termine fino a tre anni ed eventualmente essere rinnovati. Già prima del decreto, solo il 16% dei rapporti di lavoro attivati avveniva con contratto a tempo indeterminato (di questi quelli coperti con l’articolo 18 sono solo quelli nelle aziende con più di 15 dipendenti).
Eliminare solo per «i nuovi assunti» l’articolo 18 può dunque significare solo che essi sarebbero licenziabili anche a regime, cioè pure quando conquistassero un contratto a tempo indeterminato in una media o grande azienda. Non si farebbe in questo caso che approfondire il solco tra insiders e outsiders , garantiti (i vecchi lavoratori) e non garantiti (i nuovi). Anche nel lavoro, dopo che è già successo nella previdenza. Se invece si vuole togliere l’articolo 18 per tutti, è bene dirlo. Ci sono molti argomenti per farlo. Senza ipocrisie. E senza farsi scudo, ancora una volta, dei giovani.