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 2014  agosto 11 Lunedì calendario

“GLI SCACCHI SONO LOTTA E IO INSEGNO A LOTTARE”

[Intervista a Garry Kasparov] –
Garry Kasparov è considerato se non il più grande, uno dei più grandi giocatori di scacchi di tutti i tempi. Oggi ha 51 anni. Quando conquistò il titolo mondiale, battendo Anatolij Karpov nel novembre del 1985, ne aveva ventidue e mezzo: un record ancora imbattuto. Conservò la corona per l’Urss sino al 1991 e poi, per la Russia, fino al 2000. Si è ritirato nel marzo del 2005. La sua irruenza e la sua straordinaria capacità analitica sono leggendarie. Ma anche la sua avversione per i regimi: prima, quello comunista, scacchisticamente rappresentato da Karpov. Adesso, quello di Putin, di cui è fiero avversario. L’impegno politico contro il Cremlino fila di pari passo con l’impegno nel mondo degli scacchi. È infatti il maestro strategico del ventitreenne norvegese Magnus Carlsen, l’attuale campione del mondo. Inoltre, ha creato la Kasparov Chess Foundation e si è candidato per la presidenza della Fide, la federazione internazionale, carica che sarà rinnovata il 14 agosto.

Gli scacchi sono la palestra della mente, diceva Lenin. A molti scacchisti non garba che gli scacchi siano considerati soltanto un gioco. Gli scacchi, per qualcuno, sono considerati come un’espressione dell’arte e della scienza. C’è, infine, chi pensa che gli scacchi siano uno sport. Cosa sono, per lei?
«Innanzitutto Lenin non ha mai chiamato gli scacchi “palestra per la mente”. È un mito popolare sovietico inventato per stimolare il finanziamento statale. Ma certamente in essi vi sono elementi dell’arte, della scienza e dello sport. Per i grandi maestri, il concetto che più si avvicina nel definirli è quello espresso da Emmanuel Lasker, il secondo campione mondiale: “Gli scacchi sono, innanzitutto, la lotta”».
Nessuna partita a scacchi è uguale ad un’altra. Le possibilità combinatorie sono infinite, gli scacchi sono il gioco più complesso ed enigmatico che l’uomo abbia mai concepito, quasi a specchio della vita: dalla mossa di apertura allo scacco matto. Come si è arrivati a concepirli?
«Il gioco di scacchi non è stato inventato da un genio. È il frutto dell’evoluzione del pensiero umano, maturato nel corso dei secoli. Secondo la leggenda “ufficiale”, è nato in India come gioco militare a tavolino, assai lento. Poi si è modificato nel corso dei secoli seguendo un percorso lunghissimo, adeguando le regole al modo di pensare delle civiltà che attraversava: dal sud dell’Asia Centrale alla Persia, ai paesi del mondo arabo sino alla penisola iberica. Gli scacchi moderni sono apparsi in Spagna e in Italia nel Quattrocento e sono passati un periodo di sviluppo intenso durante il resto del Rinascimento».
Quando è bene cominciare a giocare agli scacchi? Soprattutto, come bisogna cominciare? Esiste una sorta di “ricetta” per associare rigore e libertà creativa, quelle che in genere sono considerate le qualità fondamentali per esprimere lo “stile” di gioco?
«Meglio iniziare da bimbo, all’età di 6-7 anni. Importante è avere vicino uno che abbia pazienza e sia ben disposto all’insegnamento, capace di spiegare le regole e gli elementi fondamentali del gioco. Per ciò che riguarda “lo stile individuale”, ebbene, questo si formerà dopo, insieme con l’esperienza».
Tutti i grandi scacchisti hanno svelato il loro talento fin da piccoli... un adulto può diventare un bravo scacchista?
«Senz’altro: anche un adulto è capace di cominciare da zero e di arrivare ad un livello assai alto. Però, è poco probabile che possa diventare campione del mondo».
Per giocare bene a scacchi, occorre disporre di molto tempo. Il tempo è un lusso. Allora gli scacchi sono un’attività esclusiva , d’élite?
«Ci vuole del tempo per qualsiasi mestiere serio. Quelli che prendono gli scacchi sul serio, li considerano una qualità esclusiva dell’attività umana, dunque élitaria».
Qual è l’età ideale per giocare meglio?
«Durante il Novecento si considerava che 30-35 anni fosse l’età ideale per un giocatore professionista. Ma poi gli scacchi sono diventati molto più giovani, ormai l’età ideale si è abbassata a circa 20-28 anni. Però, ci sono dei grandi giocatori che riescono a brillare anche dopo i 40!».
Il maestro ti addestra a diventare più abile e imprevedibile. L’arte dell’insegnamento, negli scacchi, è frutto di lunghe esperienze (sia a livello didattico che a livello agonistico). La profonda conoscenza del gioco, la capacità di vincere, la convinzione di essere leader sono fondamentali?
«Ogni allenatore ha un suo metodo, si tratta di un mestiere molto particolare, parallelo allo sviluppo del gioco. In generale, il suo scopo è allargare gli orizzonti dell’allievo, farlo pensare e analizzare in modo sistematico, ad un certo punto disciplinarlo. Quando l’allievo affronterà i tornei, tutto sarà importante: sia l’abilità, sia la voglia di vincere, che le qualità mentali di leader».
Gli scacchi sono un gioco per solitari o un’opportunità per conoscere gli altri? Lei ha messo in piedi una rete globale per convogliare i talenti degli scacchi, per sviluppare la cultura di un gioco che è metafora della vita, e della politica.
«In realtà gli scacchi sono sinonimo di un’enorme fratellanza degli uomini di tutto il mondo, un mezzo perfetto per comunicazione amichevole. Gens una sumus, è il motto della FIDE, la federazione internazionale. Su questo punto vedo un grande potenziale».
La gente, quando sente parlare di scacchisti, pensa che siano dei geni, anche se non pratici. Diciamo così, dei geni teorici. Lei ha trasposto la sua esperienza scacchistica in seminari per i top management delle più importanti multinazionali, e costoro non pagano per ascoltare lezioni puramente accademiche. Cosa imparano da Kasparov?
«Gli scacchi sono un laboratorio ideale per modellare il processo del making-decision. La mia profonda esperienza in questo campo spero possa risultare utile per i top manager nel comprendere e articolare il proprio algoritmo individuale nel making-decision. Anche per valutare la sua efficacia, per perfezionarlo ed applicarlo nel modo migliore».
Nel suo bellissimo libro che in Italia è stato pubblicato da Mondadori (“Gli scacchi, la vita”), proprio all’inizio, ricorda come divenne nel 1985 il più giovane campione del mondo di scacchi di sempre: aveva appena ventidue anni e che alla gente interessavano non gli incontri e i tornei, bensì come lei aveva ottenuto quel risultato. Come era riuscito ad impegnarsi così tanto? Quante mosse riusciva a visualizzare in anticipo? Aveva una memoria fotografica o analitica? Che diete manteneva? Quante ore dormiva? Ossia: qual era il segreto del successo?
«Già, per la gente non contavano gli incontri, i tornei, ma il modo in cui ero arrivato alla vittoria. Di solito spendevo 4-5 ore al giorno per gli allenamenti di vari tipi. Dormivo almeno 8 ore. Non ho avuto mai delle diete particolari, mangiavo sempre i cibi normali fatti a casa. Ricordo che prima delle partite mi piaceva mangiare salmone affumicato, una bella bistecca e bere acqua tonica. Verso i quarant’anni il mio allenatore mi convinse che non era la dieta più idonea. Quanto alla memoria, non ho praticato molto delle tecniche per svilupparla, siccome l’avevo sempre quasi perfetta, ma non era fotografica. Per le mosse, prevederle dipendeva dalla posizione. Per orientare i più curiosi, ho avuto due riferimenti diciamo così ideologici: il grande scacchista Aleksandr Alekhine, il mio primo eroe e la fonte più grande della mia ispirazione; e Winston Churchill. In definitiva, il segreto del successo esiste, ma ognuno ha il proprio, come ho detto in altre occasioni, ognuno di noi matura la formula irripetibile del proprio processo decisionale: dobbiamo essere in grado di identificarla, di valutarne le modalità, di cavarne il meglio e di migliorarla continuamente».
Il mondo attorno agli scacchi è legato a rituali, come società chiuse, una sorta di fratellanza… come era e come è adesso l’ambiente degli scacchi, con l’irruzione delle nuove tecnologie.
«Con l’arrivo dei computer e di Internet il mondo scacchistico è cambiato drammaticamente. Ormai tutti ricevono tutte le informazioni, tutte le novità subito, online! Col risultato che la comunità dei giocatori si è allargata moltissimo, milioni e milioni di giocatori, gli scacchi sono diventati più che mai sinonimo di mondializzazione».
Che differenza c’è fra i campioni di una volta, i campioni del suo tempo e quelli di oggi?
«I campioni del passato e i giocatori top di oggi sono paragonabili per quello che riguarda le loro abilità. Però, oggi sappiamo di scacchi molto più che in passato. Io alleno Magnus Carlsen, un talento naturale incredibile. Per me, sotto un certo punto di vista, assomiglia al giovane Anatolij Karpov».
Tutti sono curiosi di scoprire quale possa essere il DNA del perfetto campione di scacchi...
«Non so niente di un “DNA del campione”, ma ho cercato di informarmi, attraverso i saggi degli studiosi che cercavano di trovare il “DNA scacchistico”, di rintracciare cioè la particolare regolarità dei livelli di sviluppo mentale dei bambini diventati successivamente grandi giocatori. Fallimento, non hanno trovato niente. Eppure negli scacchi, come nella musica o nella matematica, esiste il fenomeno dei wunderkind, dei bambini prodigio. Secondo la spiegazione più realistica, le abilità scacchistiche, musicali e matematiche sarebbero collegate ad una zona del cervello potente ma molto specializzata. L’attivazione di questa zona, e l’evoluzione conseguente, indipendentemente dalla psiche in generale, potrebbero spiegare il sorgere di queste capacità prodigiose».
Leonardo Coen