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 2014  agosto 11 Lunedì calendario

SOLO AMORE, SENZA FILTRI: DELLA POLITICA SE NE FREGA

Succede ancora, a dispetto di buona parte delle previsioni: i ragazzi, non necessariamente, continuano a canticchiare Lucio Battisti. Fischiettano e si innamorano con lui, un po’ perché è orecchiabile e un po’ perché non ci si può fermare ai Modà. La longevità di Battisti è solo in apparenza non spiegabile. Aiuta, nel tentativo di analisi, uno dei desideri di Ligabue, teoricamente più vicino di Battisti agli attuali quarantenni e trentenni (ma pure ai ventenni). Stremato dal paragone continuo con Vasco Rossi, e ben sapendo di entrarci pochissimo, Ligabue ha specificato fin dagli esordi di avere ben altro paragone sognato: Battisti. Sperava, e spera, non tanto di essere il nuovo Battisti (è egocentrico ma non così tanto), quanto di stare ai più giovani come Lucio è stato ai ragazzi dei Sessanta e Settanta. Anche Ligabue si è rivelato più longevo di quanto fosse lecito supporre.
IL SOGNO DI LIGABUE
Prendete un quarantenne qualsiasi e fategli ascoltare Certe notti o Non è tempo per noi: difficilmente rimarrà indifferente, anche se magari giura di odiare il “Liga”. Certe sue canzoni hanno folgorato, infilzato e condizionato intere generazioni. La stessa cosa capita per quelli che ai tempi di Buon compleanno Elvis (1995) erano appena nati, o neanche raggiungevano i 10 anni. Ligabue è in questo assimilabile a Battisti: nella traversalità di pubblico, nella durevolezza del successo, nel saper essere una colonna sonora esistenziale per chi lo ascolta. Ci sono punti di contatto anche in un approccio talora guascone e quasi “machista”, peraltro una delle accuse stantie che le noiosissime femministe rivolgevano alla premiata ditta Mogol-Battisti. Ed era allora, per vocazione e per provocazione, che i due insistevano. Ad esempio nel disco Amore e non amore, per metà suite ecologiche e per l’altra metà poker di brani che tratteggiavano donne mangiauomini, frivole e sin troppo (almeno per Mogol) emancipate: Dio mio no, esempio strepitoso di jam-session con Battisti direttore di taverna (più che di orchestra) circondato da Mussida, Di Cioccio, Radius e Baldan Bembo, è summa di giocosità e cazzeggio. Più di due decenni dopo, aggiungendoci tinte lievemente fosche, Ligabue riprenderà l’archetipo della femme fatale spietata nella cinematografica Bambolina e barracuda. L’amore è per Mogol-Battisti guerra e tradimento, perdono e castigo: “vento nel vento”, in un romanticismo spericolato che non teme rischi retorici (anzi). Ligabue aggiunge spezie di U2 e Springsteen, uno spicchio di Guccini tra la via Emilia e il rock e quella malinconia mal-mostosa che non si traduce mai in sintesi politica, bensì in un liberatorio “urlare contro il cielo”. Attenzione, però: la politica, o anche solo il mugugno civile, in Ligabue c’è. Quasi che l’amore, la casa in collina e la dimensione privata, non bastassero. Quasi che Ligabue, che si arrabbia a morte se lo definisci il Prodi del rock ma che ha talora fatto di tutto per esserlo, avvertisse che essere “solo” il nuovo Battisti non fosse sufficiente. Al contrario, ed è una delle caratteristiche specifiche che ne spiegano l’attualità, Battisti ha sempre e solo voluto essere il cantante della quotidianità amorosa. Neanche ha mai parlato spesso di amicizia, laddove invece Ligabue ne parla e bene, basti pensare a Radiofreccia. Le rare volte in cui Mogol lo costringeva a cantare strofe improbabili su campagna e inquinamento, lui accelerava il cantato come a volersi togliere anzitempo il dente. Le uniche volte in cui gli hanno dato un’etichetta politica, è accaduto per forzatura altrui: i militanti, i sinistrorsi, quelli che “Battisti è fascista”. Tutte falsità, tutte sciocchezze. Battisti si ascolta ancora perché ha ostinatamente messo in musica il più immutabile dei macrotemi: l’amore. È un De André che non ha mai smesso di cantare Marinella e amor perduti. Lo ha però fatto modernizzando come nessuno il gusto sanremese, che pure ha frequentato, attuando una rivoluzione tanto estrema quanto fieramente apolitica. Chi verrà dopo non solo non avrà minimamente il suo talento, ma ogni tanto avvertirà l’urgenza (personale o commerciale) di essere barricadero con qualche canzoncina di “protesta” vagamente indignata qua e là, stando bene attento a non fare nomi per crearsi nemici. È il caso di Ligabue e pure di Jovanotti, un altro che quando vuole sa scrivere bene (d’amore, va da sé) ma che per una delle svariate tragedie minime post-contemporanee di questi anni è addirittura assurto a cantautore di riferimento per la sinistra (pardòn per il renzismo). Battisti, no: lui è uno che canta il sentimento.
OGNI DISCO UN VESTITO
Della politica non gliene frega niente e se ne vanta. È un Truffaut che, nel ’68, non si vergogna – né intende biascicare giustificazioni posticce – se alle barricate preferisce i baci rubati. Ci sono però altri due motivi che garantiscono a Battisti una eternità di cui, verosimilmente, lui per primo – schivo com’era – farebbe a meno. Il primo è la sua qualità di musicista prodigioso. Laddove chi è venuto dopo non ha apportato alcuna miglioria sonora, reiterando la stessa melodia per decenni, Battisti non è mai stato uguale a se stesso: quello che proponeva la medesima ricetta della casa, nella coppia, era casomai Mogol. Lucio, a ogni album, indossava vestiti nuovi. Nuovissimi. Così nuovi che la critica, di per sé fallace, ha sbagliato con lui come con pochi altri. Talento puro e atipico, Lucio Battisti è stato un solista suo malgrado: era felice solo se circondato da musicisti, detestava apparire e adorava la complicità triviale - celebri le sue barzellette sconcissime - con la band. I suoi brani non possono invecchiare perché, musicalmente, sono avanti di decenni: è il tempo che invecchia, mica lui. La svolta criptica con Pasquale Panella, che attende ancora una riscoperta definitiva, fu l’epilogo naturale di una vita da cercatore instancabile: Battisti non parlava di rivoluzione perché la rivoluzione era lui, e di sé non amava parlare. Il secondo motivo del suo fascino è da cercarsi nell’alone saturo di mistero.
Nel suo anelito doloroso alla scomparsa. Nella fuga continua da se stesso, nello straziato smarcamento da una vita che gli aveva regalato troppo, quando lui - in fondo - si sarebbe accontentato di essere semplicemente il più grande sarto di musica leggera italiana. Chi ascolta oggi Battisti lo fa perché I giardini di marzo strappa via il cuore anche ai cinici. Perché è stato quel gran genio del nostro amico. Perché era uno, nessuno e centomila. E perché, in quanto assente in vita, non fatica a essere oltremodo presente nella scomparsa.
Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 11/8/2014