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 2014  agosto 11 Lunedì calendario

IRAQ, LA STRAGE DEGLI INNOCENTI “GETTATI VIVI NELLE FOSSE COMUNI”

ZAHKO (Kurdistan iracheno)
ADÌ sostiene di aver avuto la percezione di un disastro imminente. Ma a farlo scappare è stata probabilmente l’eco delle urla della sua gente, gli strazianti lamenti delle cinquecento persone dell’antica minoranza yazida.
PERSONE spinte in fosse comuni e sepolte vive dagli jihadisti dello Stato islamico. Adì ha scarponi sfondati e una carabina col calcio tarlato e le canne arrugginite, così piccola da sembrare un giocattolo: se è sopravvissuto allo sterminio, lo deve soltanto alla forza dei suoi vent’anni. «Tre giorni fa, ero ancora sui monti di Sinjar, dove m’era arrampicato assieme ai miei per sfuggire alla follia omicida degli islamisti. Ma quando siamo arrivati in cima ci siamo accorti che eravamo in trappola, come mosche in un vaso di colla. Gli islamisti avevano infatti raggiunto i più lenti di noi e cominciato ad ammazzare gli uomini e a stuprare le donne. Ho avuto paura, e ho ripreso la mia fuga: dopo una massacrante marcia forzata a più di 40 gradi, e dopo aver attraversato quelle montagne, sono finalmente arrivato qui», racconta il ragazzo, indicando una catena di appennini spelacchiati e arsi dalla calura.
Incontriamo Adì a Zahko, cittadina del Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dal confine turco, travolta negli ultimi giorni da migliaia di profughi che continuano ad arrivare da ogni parte, ingrossando le più grigie statistiche dell’offensiva islamista e occupando ogni angolo disponibile, ogni scuola, cantiere, praticello o scantinato. Soprattutto, creando una situazione che gli operatori umanitari, a cominciare da quelli dell’Unhcr, non sanno più come gestire. Poco importa, infatti, che i profughi siano cristiani, sciiti, sunniti o yazidi, poiché qui sono tutti bisognosi di ogni cosa, avendo lasciato tutto dietro le loro spalle pur di salvare la pelle. Adì racconta di come gli sia cambiata la vita dal giorno in cui gli “uomini neri” hanno invaso la piana di Ninive e conquistato Mosul, prima di assediare e prendere Sinjar, la sua città. Narra della violenza gratuita, degli omicidi, dei rapimenti di ragazze. S’infuria quando ripensa all’orrendo ricatto cui sono sottoposti gli yazidi dagli islamisti: o vi convertite o vi sgozziamo. Ma quando gli diciamo dell’ultimo massacro compiuto dalle legioni di terroristi sulla sua gente, ossia delle cinquecento persone sepolte vive, soprattutto donne e bambini, rivelato ieri al mondo dal ministro per i Diritti Umani iracheno, Mohammed Shia al-Sudani, Adì china il capo e si scioglie in un pianto disperato. «E io che sono scappato abbandonando la mia famiglia in montagna. Ma l’ho fatto soltanto per obbedire a mio padre, il quale mi ha detto di andare. Forse sarei dovuto restare con loro», singhiozza il ragazzo, angosciato per le sorti della madre e delle sorelle. Evitiamo di ragguagliarlo sull’altra notizia diffusa ieri dal ministro di Bagdad, quando ha parlato di oltre trecento donne yazide ridotte in schiavitù dai combattenti dello Stato islamico. Per essersi macchiati di quest’ultimo crimine, gli jihadisti somigliano decisamente più a dei predoni che non a degli osservanti soldati di Allah. Del resto, lo stesso di può dire dei loro fratelli africani di Boko Haram, che lo scorso aprile hanno rapito duecento ragazze in un liceo nel nord della Nigeria per poi spartirsele tra le soldataglie accampate nel bush. Per arrivare a Zahko, Adì ha prima dovuto attraversare il confine siriano, per poi tornare nel territorio del Kurdistan iracheno al riparo dagli jihadisti. Come lui, in questo deserto dove il vento è un fiato incandescente che disidrata, sono riuscite a fuggire almeno ventimila persone, anche grazie a un corridoio aperto come via di fuga dai peshmerga, i combattenti curdi. Ma in quel tratto infernale molti bimbi non ce l’hanno fatta a raggiungere la Siria, e sono morti o di fatica o di disidratazione. «Prima di poter accedere a una strada battuta, ho dovuto camminare per 7 ore con pochissima acqua e pratiza viveri sulle cime incandescenti dei monti di Sinjar. Quante sciagure per un popolo che dedica un culto arcaico agli angeli e che in quattromila anni di storia non ha mai dichiarato guerra a nessuno, e proprio perché da sempre perseguitato, dagli Ottomani fino a Saddam Hussein, ha mantenuto nascoste le sue tradizioni e i suoi testi sacri, al punto da apparire misterioso agli occhi degli altri popoli.
Intanto, questa drammatica terra dove, giorno dopo giorno, gli sfollati si fanno più numerosi è anche un teatro di guerra. camente senza cibo, che avevo preferito lasciare alla mia famiglia. Quando sono arrivato a Derek ho finalmente potuto dissetarmi in un campo profughi. Ma non mi sono fermato. Ho continuato a camminare costeggiando l’Iraq jihadista fino al valico di Feesh Kabur».
Le organizzazioni umanitarie concordano tutte nel riconoscere che tra i 200mila profughi che in questi giorni patiscono nel nord dell’Iraq, la comunità degli yazidi è quella che sta messa peggio, soprattutto la parte di essa ancora rimasta sen- E ieri, grazie ai primi ed efficaci raid statunitensi contro le postazioni dello Stato islamico, le forze dei peshmerga curdi hanno riconquistato Makhmur, 30 chilometri a sud di Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan. La sua caduta, avvenuta la settimana scorsa, con le bandiere nere issate sugli edifici più imponenti della città, aveva fatto temere il peggio: la conquista di tutto il territorio da parte della valanga jihadista, e la conseguente messa a repentaglio degli interessi petro-politici di molti Paesi occidentali, in particolare degli Stati Uniti.
I bombardamenti aerei americani sono dunque proseguiti anche ieri. Il Comando militare statunitense ha detto di aver colpito cinque obiettivi, inclusi cinque blindati e una postazione per mortai: «Le forze aeree americane hanno continuato ad attaccare i terroristi dello Stato islamico in Iraq, conducendo con successo diversi raid, con aerei e droni, per difendere le forze curde vicino a Erbil, dove si trovano personale e cittadini americani (il consolato statunitense, in parte evacuato proprio ieri sera, e un Centro militare congiunto di forze statunitensi e irachene, ndr) ». Il Comando ha poi aggiunto che i velivoli americani sono tornati alla base senza danni.
Quanto ad Adì, adesso non sa più che cosa fare. Vorrebbe tornare indietro ma è troppo stanco per riaffrontare la strada appena percorsa. Tra le folle di profughi che intasano Zahko non ha ancora un trovato lo spazio per poter allungare le gambe, né ha incontrato un suo parente e neanche un solo yazida. «E poi ho paura delle bombe che cadono dal cielo. Un mio cugino che viveva a Mosul, da dove era riuscito a fuggire per Sinjar, prima di dover scappare anche da lì, mi ha raccontato che la seconda città dell’Iraq è diventata il bersaglio di tutti: dei cannoni dello Stato islamico, degli aerei da combattimento dell’esercito regolare di Bagdad e dei caccia statunitensi. Ho paura che oggi ciò possa accadere un po’ ovunque in questo Paese maledetto». Poi però, prima di lasciarci, ci confida il suo segreto: «Lo sa dove mi piacerebbe andare, e dove farò di tutto per arrivare? In Svizzera».
Pietro Del Re, la Repubblica 11/8/2014