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 2014  agosto 11 Lunedì calendario

FRANKENSTEIN SONO IO IL SEGRETO DI MARY SHELLEY

Ha quasi duecento anni, e senza di lui la storia del cinema, per fare un esempio, sarebbe molto più povera. Eppure Frankenstein, il romanzo che Mary Shelley scrisse a diciassette anni e pubblicò nel 1818, nonostante il grande successo di massa è stato tenuto ai margini dell’accademia almeno fino agli anni ‘80 del Novecento. Ancora nel ’65 Harold Bloom, con tutte le sue idiosincrasie uno dei critici più importanti del secolo scorso e forse anche di questo, scriveva che era «forte» ma «pieno di difetti, con frequenti goffaggini sia nella narrazione sia nella caratterizzazione dei personaggi. Aggiungeva che nonostante la sua mancanza di sofisticatezza e complessità, fotografava perfettamente il mito romantico. Di qui il successo.
Nel ’79 però, un gruppo di studiose pensò di rispondere a un manifesto su «Critica e decostruzione» appena lanciato dallo stesso Bloom e altri professori. E dato che si concludeva con una poesia di Percy Bysshe Shelley, l’idea fu di opporgli un volume collettivo dedicato proprio al Frankenstein di Mary Shelley, la moglie, la vedova, la sacerdotessa dell’infinito culto postumo per il grande poeta romantico. Non se ne fece niente, ma la rivalutazione del romanzo in chiave femminista cominciò proprio allora, contagiando anche la critica estranea ai «gender studies».
La capofila di quel movimento, Barbara Johnson, ha scritto molto su Mary Shelley, fino alla morte nel 2009. Ora esce postumo per la Standford University Press quello che è anche il suo testamento spirituale: A Life with Mary Shelley, un vita con Mary. Una vita di studi. Si può essere ossessionati da Mary Shelley? Sì, è la risposta. Perché col suo romanzo ha osato, in qualche modo, l’inosabile: non solo ha sfidato il partner maschio, il futuro marito, l’uomo che amava, e senza parere l’inarrivabile circolo romantico di cui faceva parte anche se in posizione di minorità, in quanto donna; ma lo ha fatto quando la letteratura femminile era eminentemente scandalosa. La storia di un mostro costruito con pezzi di cadaveri che sfugge al controllo del suo «creatore» e scatena una sorta di violenza innocente per tutta l’Europa, fino al Polo Nord lo era ancor di più.
Quel mostro, sottolinea la Johnson, le appartiene: scrivere il libro è stata di per sé stesso un‘azione «mostruosa» - come la studiosa legge e interpreta nelle lettere di Mary Shelley. Quel mostro, però, è anche un suo altro sé, un’identità oscura. La conferma è nel libro, ma anche nella sua stessa genesi. Che è nota: tutto avvenne sul lago di Ginevra, nel maggio 1816, dove P. B. Shelley con la giovanissima Mary (non ancora sposata) avevano raggiunto la sorellastra di lei, Claire Clairmont e il suo amante, Lord Gordon Byron. C’era anche il medico personale del ricco, affascinante e tenebrosissimo bardo, John Polidori, legato a lui da un complesso rapporto di odio-amore.
Belli e forse dannati, vivevano intensamente pensando soprattutto a se stessi e ai loro libri, alla poesia e all’idea che i poeti fossero, come scrisse P. B. Shelley, «i non riconosciuti legislatori del mondo». Molto meno si curavano delle compagne, che li adoravano. Erano narcisisti, passionali, seduttori implacabili tra incesti e infedeltà, figli nati e morti o abbandonati; molto lontani dalle convenzioni del loro tempo, molto noti, molto sospetti agli occhi dei tutori dell’ordine.
Quell’anno l’estate era troppo calda, il gruppo passava molto tempo in albergo a leggere storie gotiche. Fu Byron a proporre agli amici di comporne una a loro volta, come un gioco di società. A Mary Shelley non veniva in mente nulla, agli altri sì. Ma ripensandoci, giorno dopo giorno, fu l’unica scriverla davvero, la sua storia. Era la sola che potesse farlo, perché aveva tutti i personaggi a disposizione. Barbara Johnson si diverte a passarli in rassegna: Victor Frankenstein, il medico che assembla il mostro, è certamente Polidori (erano tempi in cui per le autopsie private andava forte il contrabbando di cadaveri, col suo contorno fosco e a volte criminale) ma anche lo stesso P. B. Shelley, che nella realtà usava Victor come nomignolo e soprattutto esprimeva le stesse idee «educative» del dottor Frankenstein. Quelle che nel romanzo falliscono miseramente.
«Frankenstein, o il moderno Prometeo» – questo il titolo completo –, richiama del resto il dramma lirico «Prometeo liberato» di P. B. Shelley.
Sembra curiosamente mancare all’appello il quarto personaggio, proprio il fascinoso Byron. Vero è che se ne occupò Polidori: nel 1819 il medico avrebbe pubblicato un altro libro dal grande avvenire, «Il Vampiro», ispirandosi direttamente a lui per il suo protagonista. Non è detto che l’idea gli sia venuta in quel frangente, ma l’ipotesi è quantomeno invitante. Anche perché di lì a poco, salvo Claire Clairmont, tutti i protagonisti sarebbero scomparsi: Polidori suicida nel 1821, P B. Shelley annegato nel naufragio del suo Ariel, al largo di Viareggio, nel 1822, Byron ucciso dalla malaria a Missolungi nel 1824. «Frankenstein», alla fin fine, è una storia di famiglia. E di vedovanza.
Mario Baudino, La Stampa 11/8/2014