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 2014  agosto 10 Domenica calendario

“NON ANDATE IN FONDERIA LUNEDÌ VI SPARERANNO”

[4 articoli] –
Assuefatta alla violenza. L’Italia che saluta l’alba del 1950 ha vissuto due guerre in mezzo secolo. È abbuffata di odio e morte. Ma non è sazia. L’eliminazione fisica dell’avversario è un’opzione alla base dei rapporti tra cittadini, e tra cittadini e Stato. Poco importa che non ci siano più divise militari a indicare il nemico da uccidere. Basta possedere una tessera di partito o sindacale diversa, appartenere a diversi ceti sociali, indossare un diverso abito da lavoro. Come quello, inzuppato di sangue, dei sei operai uccisi il 9 gennaio 1950 a Modena, in quello che è passato alla storia come l’eccidio delle Fonderie Riunite. Il giorno in cui il potere costituito ha perso il controllo, trasformando una vertenza sindacale in un massacro. Eliseo Ferrari, operaio e dirigente sindacale, è lì quando le mitragliatrici iniziano a sparare raffiche tra la folla dei lavoratori, uomini e donne che proprio in quei mesi il “progresso” strappa al lavoro dei campi e trapianta in fabbrica. Così accade a Luciana Cappellini, un’adolescente orfana e povera che per sopravvivere accetta turni di lavoro disumani. Diversamente da Margherita Ianelli, che cerca di opporsi a un marito che vuole sradicare la famiglia dal mondo agricolo per l’urbe. Perché così facevano tutti. E così diceva il partito. Eliseo, Luciana e Margherita sono solo tre dei milioni di italiani che hanno vissuto questo passaggio storico, raccontandolo in un diario.
Nicola Maranesi, il Fatto Quotidiano 10/8/2014

“LA ‘BENEMERITA’ MITRAGLIA DALLE FINESTRE, L’ASFALTO È ROSSO SANGUE” –
[Eliseo Ferrari] –
Eliseo è stato garzone, spazzino, mondariso, fonditore, partigiano combattente nella divisione Garibaldi; segretario della Fiom Cgil, segretario del Pci di Modena; segretario della Cgil, dello Spi e del patronato Inca dell’Emilia Romagna. Ma tutta questa attività si concentra il 9 gennaio 1950, quando vive da protagonista uno di quegli eventi che sintetizzano un’epoca: l’eccidio di sei operai modenesi che partecipavano a una civilissima iniziativa per resistere alla politica antisindacale e soprattutto contro i lavoratori delle Fonderie Riunite.
Subito dopo il capodanno del 1950 nella sede della Confindustria, vi fu una riunione degli industriali della provincia di Modena dove venne deciso l’uso della polizia a sostegno di Orsi (il “padrone” delle Fonderie Riunite, ndr) reprimendo con la violenza ogni manifestazione sindacale e di massa. Nel frattempo il prefetto e il questore rifiutarono alla Camera del Lavoro qualsiasi piazza per svolgere, il lunedì 9 gennaio, la manifestazione sindacale provinciale prevista e decisa dal consiglio generale dei sindacati e delle leghe. Il dottor Guerrini, direttore della fonderia Corni, un complesso di duemila lavoratori , chiamò Arturo Casari, capo della commissione interna, e gli disse confidenzialmente: “Non andate lunedì davanti alle Fonderie Riunite: vi spareranno”. Il commendatore Enzo Ferrari, il costruttore, chiamò Mario Barozzi segretario provinciale della Fiom, e gli disse: “Ho parlato con Adolfo Orsi e mi ha detto che le autorità competenti sono orientate a reprimere con la forza delle armi la manifestazione davanti alle Fonderie Riunite, io vi informo, è una follia, tenetene conto”.
Alla domenica 8 gennaio affluirono dall’alta Italia, dal Veneto e dalla Toscana ingenti forze di polizia e di carabinieri: circa 1500 con autoblindo, camion, jeep, armati di tutto punto, tra cui corpi speciali repressivi anti sommossa. I viali del parco davanti alla questura erano pieni. Uno schieramento sproporzionato, repressivo, di fronte ad una fabbrica di 500 lavoratori. (...) Alle sei del mattino di lunedì 9 gennaio 1950, nel salone del circolo Serenella, in via Montegrappa, presiedetti l’assemblea generale di tutti i lavoratori delle Fonderie Riunite. Vi erano quasi tutti gli operai e gli impiegati, compresi i portinai. (...) La riunione si svolse serenamente e pacificamente. Tutti d’accordo di non accettare nessuna provocazione, di stare nei pressi della fabbrica pacificamente. La polizia aveva occupato il posto dove stavamo come picchetto, solitamente: i lavoratori si spostarono più lontano anche perché davanti all’ingresso dello stabilimento vi erano dei camion pieni di poliziotti armati in attesa di entrare in azione. Bevevano abbondanti alcolici, propinati loro dagli ufficiali. Si decise: una delegazione di deputati sarebbe andata dal prefetto e una dal questore con i dirigenti sindacali per richiedere l’autorizzazione di avere la piazza per svolgere la manifestazione sindacale alle ore 10 quando iniziava lo sciopero generale. Il questore aggredì verbalmente la delegazione: “Vi stermineremo tutti” gridava come un pazzo furioso, rifiutando il dialogo, quindi l’autorizzazione alla piazza. (...)
Poco dopo le dieci un gruppo di una decina di lavoratori si trovava all’esterno della fabbrica vicino al muro di cinta, cercando di dialogare con i carabinieri che erano all’interno. Uno di questi sparò con la pistola a freddo uccidendo Angelo Appiani colpito nel petto. Nel frattempo, dal terrazzo della fabbrica, gli agenti della “benemerita” spararono con la mitragliatrice sulla folla inerme che si trovava ferma sulla via Ciro Menotti oltre il passaggio a livello, chiuso per il passaggio di un treno. Arturo Chiappelli venne colpito a morte così Arturo Malagoli, molti feriti gravemente e tanti più leggeri, una strage terribile: urla, gemiti, invocazioni disperate di soccorso. L’asfalto divenne rosso di sangue. La gente scappava, cercava rifugio, alcuni assistevano i feriti e li trasportavano al riparo dov’era possibile, li medicavano facendo le bende provvisoriamente, strappandosi le maglie di dosso e con i fazzoletti, suturando le ferite e tentando così di fermare l’emorragia. Un comportamento eroico, sotto il fuoco micidiale di quell’arma che sparò per alcuni minuti a intermittenza, un comportamento che salvò la vita a molti colpiti gravemente, medicati in case private, in ambulatori di medici disponibili, generosi che sapevano di rischiare le rappresaglie della polizia.
Roberto Rovatti si trovava in fondo a via Santa Caterina vicino alla chiesa, cioè dal lato opposto e distante più di mezzo chilometro da dove vennero uccisi i suoi compagni. Portava una sciarpa rossa al collo com’era sua abitudine. Circa mezz’ora dopo la prima sparatoria, venne circondato e scaraventato violentemente dentro al fosso e massacrato, linciato a forza di tremende botte con i calci dei fucili. Non aveva opposto alcuna resistenza.
Ennio Garagnani sulla via Ciro Menotti venne assassinato dal fuoco di un autoblindo che sparava pazzamente mentre avanzava tra la folla compiendo una strage di feriti più o meno gravi. Nella tarda mattinata, finalmente, il prefetto autorizzò l’uso di piazza Roma per svolgere la manifestazione sindacale , quando ormai il barbaro eccidio era consumato. Si calcola che nel quartiere Crocetta Santa Caterina fossero affluite circa 100.000 persone. (…)
il Fatto Quotidiano 10/8/2014

“IL PADRONE HA PROVATO A INVESTIRE MILENA, LA PIÙ CORAGGIOSA DI TUTTE NOI” – [Luciana Cappellini] –
Il racconto prende forma quando l’autrice entra nella Comunità di Nomadelfia come orfana. Da qui andrà a fare l’operaia in una fabbrica tessile a dodici anni. Luciana ricorda gli orari estenuanti, l’inflessibilità del datore di lavoro e i primi scioperi per rivendicare i diritti dei lavoratori. In seguito andrà a lavorare alla Usl, poi, in pensione, si prenderà cura dei figli di genitori impegnati nel lavoro, affezionandosi, in particolar modo, a una bambina di colore di cui non ha più notizie.
Erano gli anni 50 del boom economico. Venni assunta in una grande fabbrica della maglieria tessile, dove già operavano trecento dipendenti, in gran parte donne. Assieme ad altre ragazzine, fui accompagnata nel salone dove si concentravano tutte le diverse fasi della catena produttiva. La responsabile ci raccomandò di imparare presto le regole: “Rispettare l’orario, stare attente e concentrate e rendere al massimo delle proprie forze sul cottimo”. Tutto ciò era ovviamente per il nostro bene, in quanto fuori dalla fabbrica ogni giorno c’erano decine di ragazze che aspettavano un posto libero.
Mi trovai sobbarcata di infiniti impegni, le tante faccende per la famiglia e il ritmo della produzione. Non c’era tempo neanche per lamentarmi. La fabbrica era fuori dal comune dove risiedevo da dodici chilometri. Partivo al mattino mettendomi in strada un’ora prima rispetto al risveglio dei miei fratelli, rinunciando al piatto caldo di mezzogiorno per consumare un pezzo di pane farcito, in parte, di fantasia. (...)
In quelle famiglie di operai si viveva con il minimo indispensabile. E se non si rendeva a sufficienza sul lavoro si rischiava il licenziamento. Tutti noi operai sapevamo quanto si lavorasse per guadagnare quei pochi soldi, giornate lavorative che superavano sempre le dieci ore, compreso anche il sabato. A tanto lavoro però non corrispondevano i soldi in busta paga, in quanto ci veniva poi negato anche il compenso per le ore straordinarie. Così in ogni operaio si accumulava la rabbia e la voglia di protestare per giungere a un miglioramento.
L’unico strumento a disposizione era lo sciopero, l’arma per la lotta di classe che unisce tante persone diverse, ma accomunate dalle stesse esigenze. Nelle industrie noi operai eravamo centinaia e centinaia a scioperare. Il titolare, per disperderci, mandava la polizia. Al solo vederla, mi tornava alla mente quel lontano sopruso il giorno in cui svuotarono l’ex campo di concentramento divenuto “Città di Nomadelfia”, rompendo la tranquillità di noi centinaia di orfani.
La titolare all’ingresso del portone della fabbrica ci incitava ad entrare dicendo a noi dipendenti che la Polizia era lì presente solo per difenderci. Ci furono per un lungo periodo aspre tensioni, scioperi con picchetti, con il supporto di un nutrito gruppo di operai che si esponevano, sempre davanti ai cancelli nelle diverse manifestazioni, con il rischio di essere cacciati dalla ditta. Fu grazie a loro che prese il via la creazione del sindacato. Ricordo una ragazza giovane di nome Milena, contestatrice fra quelle in vista, operaia disponibile per la difesa di ogni nostro diritto: mentre si prestava a fare il picchettaggio davanti al cancello di una fabbrica, una macchina di grossa cilindrata a velocità sostenuta si introdusse nel bel mezzo dei manifestanti e noi spaventati ci spostammo, mentre Milena rimase immobile, come per vedere chi dei due fosse il più ostinato; in quell’episodio ha rischiato di essere schiacciata fra il cancello e la macchina del proprio datore di lavoro.
Alle volte il pensiero volava verso la libertà della campagna.
il Fatto Quotidiano 10/8/2014

“COSA CI ANDIAMO A FARE IN CITTÀ DICO IO! CHE IDEE TI HANNO MESSO IN TESTA” – [Margherita Iannelli] –
Gli “Zappaterra” sono i contadini emiliani che mangiano patate e accolgono una bambina orfana, Margherita - nata a Marzabotto nel 1922 e morta nel 2011 - insegnandole a diventare schiava del lavoro nei campi. A quattordici anni scende dalle montagne sopra Marzabotto e va a servizio di una famiglia benestante a Bologna. A cinquant’anni, dimenticate le poche nozioni di quando era bambina, decide di imparare di nuovo a leggere e a scrivere per raccontare tutta la sua storia. La sua autobiografia - “Gli Zappaterra” appunto - è stata Premio Pieve 1996.
La lotta per la terra e chi la lavorava, non servì a niente. Molti contadini, con quel sistema si indebitarono verso la proprietà e nulla più. Ma poi con lo sviluppo dell’industria e dell’edilizia molti contadini abbandonarono la terra, per altri lavori più redditizi. I sindacati non perdettero l’occasione di incitare i lavoratori della terra di abbandonare quel lavoro, che solo gli ignoranti potevano svolgere quel lavoro. Il loro scopo era di radunare il popolo dentro alle officine, dentro agli stabilimenti. Sarebbe stato più facile tenerlo compatto, per aderire agli scioperi. Nessuno avrebbe più avuto il fieno da marcire o il vitellino da salvare. (…)
I contadini furono i primi ad abbandonare la terra. Poi incitavano quelli che non la volevano abbandonare come me. Mentre mio marito, era del parere di seguire la massa e diceva: “Se campano gli altri a lasciare la terra, camperemo anche noi”. Quel modo di parlare, mi faceva andare in bestia, gli dicevo: “possibile che tu devi sempre ragionare con la testa degli altri? Non pensi ai problemi della tua famiglia? Quando abbiamo abbandonato la terra, il peso della famiglia ricadrebbe tutto sulle tue spalle. Per tanto non scoppi di salute, dovresti pur pensare a quale lavoro andresti a fare. Anch’io poi dovrei andare a lavorare lontano da casa. Ma siamo in sei in famiglia, tua madre oggi mi dà un aiuto, ma domani di quel aiuto potrebbe avere bisogno lei. I figli da seguire a scuola e a casa, cosa darei alla famiglia se andassi via al mattino poi ritornassi alla sera? È vero che il lavoro che io volgo è il doppio di quello normale, anche perché tu te la prendi comoda. Però sono anche più libera, se un giorno non posso andare nel lavoro dei campi per vari motivi, non succederebbe niente. Posso seguire i figli, a scuola, a casa, quando fa brutto tempo mando avanti quei lavori, che me li trovo già fatti quando si va nel campo. Poi restare sulla terra tutta la famiglia può contribuire, ci sono dei lavori adatti a tutte l’età. I figli quando ritornano da scuola possono darci una mano. Ma se lasciamo il lavoro dei campi, le unità lavorative nella nostra famiglia si riducano a pochi componenti e il reso sono tutti da mantenere. Sono tutte cose che bisogna ragionarci sopra, non seguire gli altri. I nostri problemi non sono uguali a quelli degli altri.
Perché una buona volta non ascolti me? Ma il motivo lo so, perché anche te ti hanno messo nella testa che chi frequenta la Chiesa è un povero ignorante. Ora ti stanno dicendo che solo i poveri ignoranti restano a lavorare la terra. Ma lo voi capire che devi usare la tua testa per risolvere i tuoi problemi, almeno se ascoltasti me, non tutte quelle chiacchiere, per quel domani migliore e ce lo siamo ritrovati peggiore.
Non hai ancora capito che quella ignorante di tua moglie lavora il triplo di te. Riesco a mandare avanti la famiglia, con il guadagno di pochi polli e conigli.
E qualche maiale, per lasciare il guadagno dei raccolti al proprietario per pagare quel debito fatto insieme agli altri, che se fosse stata pella mia idea tanto debito non si faceva, perché bisognava lavorare non ascoltare le chiacchiere. Ci era anche capitato di andare in un fondo più piccolo e migliore, ma tu quel giorno davanti a quel proprietario hai fatto pena, non sei poi così stupido da non capire che a volte basta una parola, ma detta con senno e convinzione. Così in quel modo dobbiamo tribulare il doppio. Ma adesso sto anche pensando, che se in tanti lasciano il lavoro dei campi, non dovrebbe essere poi tanto difficile trovare un fondo migliore e più adatto alla nostra famiglia”.
Dopo quella predica, sembrava, convincersi, anche per il fatto molti di quei compagni sen’erano andati. Così tra moglie e marito si era tolto di mezzo il partito.
il Fatto Quotidiano 10/8/2014