Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 10 Domenica calendario

SCOZIA CONTRO LONDRA: ANCHE PER NOI UN FONDO STILE NORVEGIA

La formica norvegese e la cicala inglese. Con il senno di poi e con vista da Edimburgo, la questione di quel che sarà della Scozia è in larga misura questa. Se Londra avesse fatto come Oslo, oggi le terre oltre il Vallo siederebbero su un tesoretto di tutto riguardo, un centinaio di miliardi di sterline al 2012, secondo la Fiscal Commission del governo nazionalista di Alex Salmond. Non solo: avrebbero azzerato la quota di debito nazionale "scozzese" del Regno Unito. Se negli anni 80, quando petrolio e gas cominciarono a uscire dal fondo del mare, fosse stato creato un fondo sovrano per le future generazioni, mimando quello su cui siede ora Oslo (650 miliardi di euro circa), il teorico divorzio sarebbe più semplice.
Come per una coppia decisa a vivere esistenze separate, anche per due Stati divenuti incompatibili, il quattrino fa la differenza. Soprattutto per una specie di oil economy qual è, in parte almeno, la Scozia, che non si chiama Kuwait e nemmeno Qatar, ma che trae il 10% del suo Pil dalla tassazione sul barile. Singola maggiore industria della nazione e quindi punto di partenza per ogni discussione sull’interrogativo di fondo che arrovella gli elettori: ci conviene di più stare soli o rimanere uniti a Londra? La passione per la libertà, vale la pena di ripeterlo, è massimamente temperata da considerazioni economico-finanziarie. Considerazioni complesse perché la divisione del territorio e quindi anche delle risorse di idrocarburi avrà ricadute sulla ripartizione del debito nazionale. Il numero magico è il dieci: il Regno perderà, circa, il 10% della popolazione - e un terzo del territorio - e per converso Edimburgo si dovrebbe ritrovare con circa il 10% del debito nazionale. Sugli scozzesi è stata rovesciata una quantità infinita di numeri e i numeri, in questo caso, li stiracchiano tutti cercando di scorgere le buone ragioni di un "sì" e quelle di un "no".
«Se si valuta la capacità di crescita, il futuro della Scozia come quello di tutti i Paesi - spiega John Mc Laren, economista e direttore del think tank Fiscal Affairs Scotland - dipenderà dalle politiche future. C’è spazio per dire che potrà guadagnare o perdere immaginando misure diverse che potranno essere varate, ben sapendo che è comunque uno dei Paesi più ricchi del mondo. Diversa è invece la prospettiva del bilancio statale». Standard & Poors ha scritto, e il governo nazionalista scozzese non si stanca di ripeterlo, che "una Scozia indipendente anche al netto delle riserve del Mare del Nord merita la nostra valutazione più elevata". In realtà a fare la differenza è proprio il barile.
«In caso di vittoria del "sì" - spiega Alex Kemp, economista di Aberdeen esperto indipendente sulle riserve del Mare del Nord - cominceranno negoziati che si concluderanno con l’assegnazione alla Scozia di circa l’80% delle riserve di idrocarburi, pari al 90% delle revenue, adottando la logica della linea mediana, la più accreditata. La produzione cala dal 1999 (fra il 7 e il 10% all’anno, ndr) per l’inefficienza di impianti antiquati. I nuovi investimenti porteranno a una ripresa per 5 o 6 anni, poi la caduta sarà permanente». In altre parole il trend sul lungo periodo è calante. Il governo centrale e quello di Edimburgo divergono sulla forza della caduta, ma la rapidità è essenziale per capire se per la Scozia sarà conveniente rinunciare ai trasferimenti da Londra in cambio del gettito del barile che oggi finisce al Tesoro. E la differenza non è poca cosa. Le stime dei "separatisti" sono più del doppio (34,3 miliardi di sterline fino al 2019) rispetto a quelle degli uffici (Office of budget responsibility) di Londra che si fermano a 16 miliardi circa. Per Alex Kemp le riserve del Mare del Nord fino al 2050 garantiranno 14-15 miliardi di barili, il 50% in più di quanto immagina il governo di David Cameron. Per stabilire il ritorno economico si deve però fare un’azzardata scommessa sul prezzo del greggio nel lungo periodo ed è questo a confondere le carte spalancando una voragine di valutazioni incerte, ma sufficienti per spingere il fronte unionista Better Together a dire che ogni scozzese perderà, in nome dell’indipendenza, 1.400 sterline l’anno, mentre i secessionisti sostengono che dal 2029 ogni cittadino "guadagnerà" mille sterline. «La variabile - spiega John Mc Laren - per valutare il bilancio di una Scozia indipendente è, oltre al petrolio, la ripartizione del debito nazionale e il calcolo degli interessi relativi. Elementi che rendono impossibile dare una risposta definitiva oggi sugli assetti finali. Nel modello più ristretto messo a punto dal nostro istituto una Scozia indipendente si troverebbe in condizioni peggiori di una somma oscillante fra i 250 e 900 pound per cittadino. Oggi il saldo fra trasferimenti (7-8 miliardi circa, ndr) e revenue da idrocarburi (5 miliardi circa, ndr) è negativo di un paio di miliardi anche perché il welfare scozzese costa una quota significativa in più (circa il 20%, ndr) di quello inglese».
Edimburgo potrebbe quindi trovarsi libera, ma più povera ed essere costretta a varare tagli di spesa o ad aumentare le tasse. Scenario che i nazionalisti rigettano perché - ed è indiscutibile - non tiene conto di mille altre variabili politiche che pesano sulla ripartizione del debito. Una mano che vedrà rilanci incrociati sui sommergibili nucleari Trident ospitati dalla Scozia, sul valore degli asset esteri del Regno, sul peso della quota scozzese nel Consiglio di sicurezza dell’Onu in un crescendo che, per molti, potrebbe anche concludersi con un deal alla russa, quando Mosca si fece carico di tutto il debito delle ex repubbliche sovietiche che rinunciarono ad atomiche, proprietà estere e, senza troppe difficoltà, dell’autonomia monetaria. Il muro della trattativa, se mai avverrà, potrebbe proprio essere quest’ultimo e per ragioni opposte a quelle apparenti.
Il pound non essendo il rublo dei primi anni Novanta piace ai nazionalisti. È Londra a dire di non poterlo concedere. In realtà l’unione monetaria di due Paesi divisi ha un appeal enorme sugli elettori: i sondaggi precipitano verso il No se agli scozzesi è prospettata l’idea di abbandonare la valuta del Regno. Alex Salmond lo sa e cavalca una secessione che vuole attutita dalla divisa comune e che certamente piace anche a quel mondo del business - Cbi, la Confindustria inglese è per il No, ma ha dovuto rinunciare all’idea di finanziare la campagna antisecessione per la minacciata fuga di molti iscritti indecisi e contrari a un netto posizionamento - terrorizzato da scenari simili a quelli dell’Eurozona oltre il Vallo. Soprattutto lo teme il settore finanziario che rappresenta l’8% del Pil e ha una "taglia" infilandoci dentro Royal Bank of Scotland e quant’altro immaginabile – secondo i calcoli di Kleinwort Benson – pari a 12 volte il Pil locale. Islanda al cubo. Too big to bail (troppo grande per essere salvata), scrive la banca d’affari giocando con le parole. Anche per questo il Tesoro di Londra teme la condivisione del pound soprattutto se dovessero emergere divergenze sulle politiche di bilancio. Edimburgo ha già pronta la replica all’eventuale "No" britannico a una sterlina condivisa: la cancellazione unilaterale della quota di debito nazionale scozzese. Un colpo di penna e via, nemici come mai prima. Abbastanza per incendiare gli animi, escalation di minacce per un addio improbabile, ma non affatto impossibile.
Leonardo Maisano, Il Sole 24 Ore 10/8/2014