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 2014  agosto 10 Domenica calendario

I FABBRICANTI DI LINGUE

Bizzarre creature, gli uomini pensano di pensare. Ma se solo ci pensassero davvero, capirebbero che c’è una facoltà che certamente li distingue dagli altri esseri viventi, che forse è l’unica e che non è il pensiero: è la parola. Come sia successo non lo può dire nessuno, anche se molti pensano di saperlo o che prima poi qualche elettrodo posato su un cranio o qualche traccia su un monitor stani la facoltà linguistica dalla circonvoluzione cerebrale in cui sta annidata. Ma certamente deve porsi la questione chiunque si svegli una mattina con l’idea di «inventare una lingua». Padre Dante, con un’immagine di arcana potenza, parlava del volgare italiano come di una «panthera» che «redolet», profuma dappertutto ma che non si riesce a catturare. E forse la metafora selvaggia è più vicina alla verità di ogni altra elucubrazione. Come può allora un uomo essere tanto folle da pensare di crearsela nel proprio laboratorio da Frankenstein, quella pantera?
Eppure l’idea non è venuta a pochi. Anche ammesso che sia una fola che i gemelli sviluppano a pochi mesi d’età una criptolalia con cui si intendono benissimo, tutti i bambini prima o poi si mettono a inventare una lingua: rovesciano le parole, o ci inseriscono sillabe farfalline o serpentine, aggiungendo enigma e mistero all’enigma e mistero primario, che è quello di parlarsi e intendersi. È ciò che Federico Fellini ha celebrato nella scena di Otto e mezzo in cui, nel semibuio di una camera da letto, i bambini sussurrano «Asanisimasa» e alla formula il ritratto che hanno in camera muove gli occhi. Si «anima», cioè: «Asanisimasa» è appunto la parola «Anima» con le inserzioni prescritte dalle regole dell’”Alfabeto serpentino”.
Ma poi i bambini crescono e allora può andare come andò al professor Alessandro Bausani (1921 — 1989), che da ragazzino inventò una lingua personale abbastanza complessa e la chiamò “Markuska”. In seguito divenne un rispettabile islamista e all’età di cinquant’anni pubblicò uno studio assai dotto sulle Lingue inventate (Astrolabio, 1974; edizione originale tedesca, 1970) che si concludeva con un capitolo in cui descriveva il Markuska, senza inizialmente proclamarsene conlanger.
Così attualmente si dicono infatti gli inventori di lingue. Il termine viene da conlang, contrazione di constructed language: di conlanger è oggi piena la Rete.
Il caso contemporaneo più impressionante è probabilmente quello di Frédéric Werst (il nome è uno pseudonimo), un professore di lettere parigino. All’età di dodici anni fu suggestionato da un manuale di latino che invitava i lettori a inventare una lingua. In seguito si appassionò a latino, greco, storia medioevale e calligrafia e incominciò a immaginare regole grammaticali. Nel 2007, a trentasei anni riprese con più metodo tali fantasticherie e edificò una società, il paese dei Wards, e una lingua, il wardewsan. La costruì con acribia, inventando parole per lui gradevoli e poi attribuendo loro funzione sintattica e significato, fino ad arrivare a scrivere direttamente in wardewsan e tradursi poi in francese. Il suo primo libro, Ward Ier-I-Ie siècle è uscito da Sueil nel 2011 ed è stato un grande successo (è in preparazione l’edizione italiana, da Clichy). Scritta nella lingua dei Wards, con traduzione francese a fronte, è un’antologia di testi letterari, filosofici, religiosi, storici, etc. dei Wards. Contiene anche una piccola grammatica del wardewsan (e invita il lettore a ritradurre da sé i suoi brani preferiti). Quest’anno è uscito il secondo volume, dedicato al «terzo secolo » (si colloca nel nostro Rinascimento): è analogo al primo e propone un lessico wardewsan. Werst ha dichiarato di sapere a memoria circa metà del vocabolario dei Wards, che oggi consta di diecimila lemmi. Sostiene che in wardewsan fa pensieri e ragionamenti che in francese non farebbe.
Paolo Albani e Berlinghiero Buonarroti dovrebbero dunque aggiornare ai Ward il loro Aga Magéra Difura. Dizionario delle lingue immaginarie (Zanichelli, 1994), che forse è il titolo più fortunato della serie di dizionari eccentrici dell’editore bolognese. Libro di riferimento per chi si incuriosisce alla materia, ne percorre e censisce l’immenso spettro storico, geografico, filosofico e letterario. Dalle glossolalie religiose e le lingue iniziatiche ai linguaggi dell’informatica, dalle crittografie ai gerghi, dalle lingua ausiliarie internazionali — culminate nell’Esperanto — alle lingue filosofiche e alle invenzioni letterarie, come appunto li wardewsan.
Dietro alla costruzione di una lingua, o «glossopoiesi», c’è molto spesso un’utopia ed è difficile segnare il confine che distingue, tra le lingue immaginarie, quelle a cui corrisponde l’invenzione di un mondo più o meno ideale. È il presupposto dello studio, preciso e appassionato, che la semiologa romana Caterina Marrone ha dedicato alle Lingue utopiche ( Stampa Alternativa, 2004), notando come il fenomeno sia tipico soprattutto della letteratura inglese e francese. Sono state (l’inglese lo è ancora) le lingue che non rendevano necessario conoscerne altre ed evidentemente l’invenzione di lingue immaginarie era anche un modo per riflettere sulla propria, uscendone. Cosa che i poliglotti hanno già fatto quando hanno appreso una seconda, o una terza, o una quarta grammatica.
Gli esempi storici sono numerosi, dal Newspeak di George Orwell alla lingua furbesca (criminale) Nadsat dell’ Arancia meccanica di Anthony Burgess. Ma normalmente si tratta di lingue che vengono descritte in una finzione, con campioni esemplificativi. In italiano abbiamo la lingua dei boscaioli del Barone rampante di Italo Calvino ma soprattutto la fantasia metaletteraria del Dialogo dei massimi sistemi (1937) di Tommaso Landolfi, che contiene la poesia da cui Albani e Berlinghieri hanno tratto il titolo Aga Magera Difura ( ne costituisce il primo verso). Sullo sfondo, i borborigmi mimetici del grammelot di Dario Fo, che sembrano fermentare direttamente da quel caos primigenio, quel continuum non ancora segmentato che il semiologo Louis Hjelmslev chiamava «materia», o anche «senso».
L’invenzione di una conlang normalmente investe uno solo dei due ambiti che fanno di una lingua una lingua: la struttura, ma non la socialità. Se J. R. R. Tolkien ha dichiarato che avrebbe voluto scrivere tutto Il signore degli anelli in una delle lingue lì descritte, l’Elvish (Tolkien è stato un fecondo conlanger), Werst lo ha fatto veramente. Nel momento in cui un arguto editor di Seuil ha deciso di pubblicare il primo libro di Ward il wardewsan si è socializzato. In Rete oggi ci sono siti di wardewsan, come ce ne sono per l’Elfico di Tolkien o per il Klingon di Star Trek, o per il Na’vi inventato dal linguista Paul Frommer per Avatar . Accanto alla Babele naturale, la Rete fa crescere una Babele artificiale che la rispecchia e la deforma. Forse proprio questa, modesta e immane, è l’utopia che si incarna.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 10/8/2014