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 2014  agosto 10 Domenica calendario

MARCO BALIANI

[Intervista] –
ROMA
«Nasco a Verbania, sul lago Maggiore, il 6 luglio 1950, e mi tirano fuori col forcipe dalla pancia di mia madre, sul tavolo della cucina di marmo, e io ho una fossetta sopra la testa dove il forcipe stringeva, e se avesse stretto un po’ di più Baliani oggi non ci sarebbe stato, o sarebbe menomato. È un segno indelebile: non c’è osso, c’è fontanella». È bello sentir parlare Marco Baliani, comunicatore per istinto, autore, attore e regista teatrale che scrive anche libri, e che di mestiere fa l’uomo, un uomo che ha vissuto senza risparmio. «I miei si trasferirono poi ad Acilia, a sud di Roma, perché lì si potevano costruire le case con pochi soldi. Mia madre, maestra elementare, era l’unico reddito della famiglia finché papà non fu assunto al ministero della Difesa. Ad Acilia abitavamo nel Villaggio Africa, pieno di gente cacciata via dalla Libia, come mio padre, che aveva trascorso lì sedici anni. Tra sfollati ed ex coloni ricevevo un imprinting di parlate dialettali di siciliani, calabresi, friulani, giuliano-dalmati (con cui facevamo a sassate) e romagnoli». Diceva Pasolini che la vita è determinata dalle cose che incontri e che guardi, e l’infanzia di Baliani ne è la prova. «Prati, marane, montarozzi, terreni da far west, tombe etrusche, il Tevere dove si faceva il bagno con bande di minorenni. Vivevo più fuori che dentro casa». L’ha raccontato nel suo romanzo, Il regno d’Acilia. «Il rapporto con la natura era quotidiano, spietato. E anche i corpi erano materia d’insegnamento. L’educazione si traduceva in sessualità precoce, noi spiavamo le coppiette che si infrattavano, e sono cresciuto con un concetto dell’eros senza alcuna complessità cattolica, con papà socialista e mamma comunista, senza mai mettere piede in chiesa, salvo andare all’oratorio per la merenda. Però ero battezzato perché mia madre prima del comunismo era fervente cattolica.
I miei s’erano incontrati perché lei era andata con un pullman dell’Azione cattolica a Roma, dal Papa, e mio padre reduce da Tripoli era pure lui lì, ficone, bello, e l’aveva seguita e conosciuta».
In gioventù arriva la prima svolta. «Qualcosa di terribile m’accadde a diciassette anni. Partivo ogni mattina alle cinque da Acilia per andare al liceo a Roma, scientifico, il Cavour. Feci l’errore di volermi trasferire in una scuola più vicina, a Ostia. Ci fu un attacco fascista, ruppero banchi e vetrate, e io volli fare l’eroe insieme a un pezzo della mia nuova classe. Mi massacrarono. In ospedale ebbi una depressione fortissima, e pensieri cupi, e neri, per mesi, con tic nervosi, nausee, vomito. Come ha ragione Paul Nizan a dire “Non permetterò mai a nessuno di dire che quelli erano gli anni più belli della vita”. In un mood da ricovero, scoprii i libri. Alcuni amici da Roma mi vengono a trovare e uno di loro dimentica sul letto Lo straniero di Camus. È il romanzo che mi ha salvato la vita. Comincio a rinascere. Da quel libro ho tratto anche uno spettacolo, nel 2003».
Per un artista di narrazione epico ed energico come Baliani, per uno che tra i suoi spettacoli vanta parabole sociali, progetti interculturali, tragedie pubbliche, un premonitore Francesco a testa in giù, lavori realizzati con ragazzi, e Piazza d’Italia da Tabucchi, fino a variazioni sull’ Orlando Furioso, rinascere è stato un prendere sempre nuova coscienza di sé e degli altri. «Diciottenne, anziché iscrivermi all’Accademia militare di Pozzuoli, e diventare ingegnere-pilota, ricevo la telefonata di un amico: “Ma che sei matto? Vieni con me ad Architettura”, e io lo seguo, e mi ritrovo nel bordello del ’68 con estremisti di sinistra, fascisti e polizia a Valle Giulia. Di lì a poco divento un extraparlamentare piuttosto animoso, in un gruppo legato ad Autonomia Operaia. Manifestazioni, occupazioni delle case, molotov, riunioni infinite. Mi piaceva il caos, ma non i testi di Lenin. Ero un cane sciolto, bravo a parlare, dotato di buona retorica, con molta immaginazione». Oratoria da applauso. Ecco dove nasce l’attore. «Con alcuni compagni avevamo creato una comune a via dei Serpenti (ne scriverò nel mio prossimo romanzo), ma la fauna cambiò presto, c’erano i politici, quelli che si bucavano, e il mio gruppo che voleva fare happening. La sera andavamo in un baretto a via dell’Oca, dove c’erano Cucchi e De Dominicis, e cominciammo a imbiancare le loro case». Fine della comune, ma a Baliani resta lo spirito solidale. «Io e altri mettiamo su casa a Morlupo, come indiani metropolitani extracittadini. La facoltà è occupata, e lì conosco Maria Maglietta di Potere Operaio, lei non mi considera, ma una volta mi vede con un libro per me fondamentale, Moby Dick, traduzione di Cesare Pavese, e s’incuriosisce, e io le racconto di Achab e della Balena Bianca... In breve, decidiamo di mettere in scena nell’aula magna Il re è nudo, siamo in trenta, molti suonano, io faccio il narratore, e ho l’idea di trasformare in show la storia di Andersen sul potere che si denuda, col risultato che lo zoccolo duro dell’occupazione due giorni dopo ci convoca e ci caccia dalla facoltà: “Non siete più compagni, ma attori”. Per reazione decido di diventarlo, attore, e di creare a ventiquattro anni un gruppo. Cominciamo (per due lire) a dar spettacolo nei festival proletari portando nel frattempo nelle scuole tre fiabe».
È così che inizia il percorso artistico di Baliani. Soprattutto col Teatro Ragazzi. Dà vita nel ’75 alla Cooperativa Ruota Libera, e nell’83-84 in un centro romano del Pigneto, davanti a masse di ragazzini, lui futuro narratore Doc nazionale, debutta da solo raccontando cose tradizionali, Cappuccetto Rosso o Hansel e Gretel , e la cosa funziona alla grande. Il passo successivo è nell’89 col monologoapologo Kohlhaas da Kleist. Un botto. Arriva la critica ufficiale a recensirlo. Il festival di Santarcangelo gli commissiona una regia su Calvino. Per l’anniversario della strage di Bologna dirige cento attori e attrici. Poi c’è l’esperienza dei Porti del Mediterraneo tra Beirut, Tunisi, Casablanca e Tirana, con interpreti di tutte le provenienze, e drammaturgia sempre di Maria Maglietta. «Progressivamente c’è anche lo stimolo che m’arriva da mio figlio musicista, Mirto, con le sue strutture sonore. Ora ha trentasei anni, e io sono nonno da nove mesi di Anita... ». A Nairobi dal 2002 semina vocazioni e apprendistati. «Ho messo su spettacoli con giovani africani, e ora ho appena finito di formare nuove leve lavorando con ex ragazzi di strada. Lì devi stare attento, c’è una violenza pericolosa, e devi ritirarti la sera in un compound con guardie armate e filo elettrificato, in attesa che la mattina ti riportino col pullman nello slum, nel centro d’accoglienza costruito anche grazie a Pinocchio nero, frequentato da quattrocento, quattrocentocinquanta ragazzini».
Baliani ha scritto due romanzi e una raccolta di racconti, e due diari di viaggio, ma resta un irriducibile animale della scena. «Il centro di tutto è una sala buia di qualunque teatro purché ci si possa inventare un mondo diverso da quello che c’è fuori. A me piaceva anche fare il pittore o lo scultore (lo faccio, ma seppellisco le sculture, o le incastro nei muretti a secco): sono tecniche di protezione, producono arte manuale, ma non mi importa che gli altri scoprano queste cose, le vedano. Invece mi interessa condividere il teatro, il chi siamo, il come siamo fatti, con un prodotto finale alla portata di tutti. La scrittura letteraria è un’altra cosa, ho cominciato tardi. Per paradosso il libro resta e il teatro è effimero. Quando invecchi diventi credente, e io voglio che rimanga qualcosa di più...». Un fatto di spiritualità? «Dopo le ideologie degli anni Settanta, sono sempre più affascinato dai misteri. L’Africa m’è molto servita. La fisica ci dice che siamo nell’energia oscura. Prospero, nella Tempesta, ha ragione: c’è altro».
Le emozioni. «Un concerto di Bruce Springsteen, di Vasco Rossi, ovunque ci sia una scossa di vissuto. Non sono bravo a dire i miei sentimenti. Gli altri mi vedono come una roccia, io mi sento fragile, anche nel corpo». Pentimenti? «Uno, grave: non aver fermato compagni che sparavano. È uno dei motivi per cui non faccio più Corpo di Stato su Aldo Moro. Le ultime volte piangevo, senza distanze. Eppure il rimedio sta proprio nel teatro. Figurare altre vite da quella che siamo costretti a vivere rende il mondo assai meno orribile».
Rodolfo Di Giammarco, la Repubblica 10/8/2014