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 2014  agosto 10 Domenica calendario

LA LEZIONE DELLA SPAGNA COSÌ HA RIPRESO A CORRERE

BARCELLONA
In un venerdì pomeriggio d’estate, il quartier generale di Desigual è quasi completamente vuoto. In questi 24 mila metri quadri di spazi aperti di solito lavorano circa mille persone ma nell’ultima mezza giornata della settimana ne restano non più di quattro o cinque. Da un lato le vetrate affacciano sul porto di Barcellona, dove si muovono navi da crociera cariche di migliaia di turisti.
Dall’altro sulla spiaggia della città affollata di studenti e addetti di Desigual appena usciti dall’ufficio.
Non è pigrizia la loro, è produttività: quella che permette di fare di più in meno tempo, di avere salari più alti e insieme tempo libero. Negli anni in cui l’euro ha rischiato di andare in pezzi e la Spagna di sprofondare, quest’azienda di abiti prêtà- porter ha raddoppiato il fatturato da 440 milioni di euro del 2010 a 828 nel 2013. E’ quasi tutto export. Se ora la Spagna è avviata a una crescita dell’1,5% nel 2014 e nell’ultimo anno ha creato quasi 400 mila posti di lavoro netti — mentre l’Italia viaggia ancora in recessione e nello stesso periodo ne ha distrutti 26 mila — il segreto è in decine di aziende così. Il Circulo de Empresarios di Madrid di recente ha stilato la lista delle prime 50 “medie” imprese spagnole per produttività, margini di guadagno, capacità di innovare o di crescere, e Desigual si è piazzata 18esima. In questi anni i dipendenti sono aumentati in proporzione al fatturato e oggi la loro età media è di 29 anni. Sono designer, manager, esperti di marketing, logistica, contabilità o finanza, tutti dotati istruzione superiore, perché Desigual genera solo una minima parte dei suoi capi d’abbigliamento in Spagna. L’attività ad alto contenuto di pensiero e valore aggiunto è tutta qui, le fabbriche invece per lo più in Cina e Europa orientale.
In termini di prodotto, né Desigual né le altre 49 imprese “medie” alla guida della ripresa spagnola hanno molto che il sistema industriale italiano possa invidiare. Certo non la qualità o la dotazione in tecnologie e innovazione dei beni che escono dai cancelli. Nell’elenco dei 50 campioni spagnoli figurano, fra gli altri, produttori di olio, distributori di carburanti o di alimentari, rivenditori di elettronica online. E quando il governo ha voluto premiare tre start-up modello, ha finito per sceglierne una che fa yogurt surgelati, una catena alberghiera e un sito di vendite di biglietti online. La Spagna è avanti all’Italia nella ripresa, però nella gamma di ciò che vende al mondo.
Resta dunque da capire perché una forbice così vasta si stia aprendo fra i due concorrenti del Mediterraneo. Né Desigual o i madrileni Zara-Inditex e Mango hanno molto a che fare con Armani, Prada, Versace, Valentino, Ferragamo, Diesel, Tod’s, o Borbonese. La cura del prodotto finale è completamente diversa e in questo le eccellenze sono in Italia. Eppure c’è qualcosa nella capacità di accelerare i processi aziendali e la logistica che sta portando queste imprese e tutta la Spagna dove l’Italia non riesce proprio ad arrivare: a un approdo sicuro, dove la fiducia non è erosa di continuo dalla caduta della produzione e dall’emorragia di posti di lavoro.
Non che in Spagna il crollo sia stato meno drammatico che da noi. Dal 2008 i prezzi delle case sono scesi del 40%, portando un terzo del settore bancario all’insolvenza e obbligando il governo a chiedere un aiuto internazionale di 40 miliardi per ricapitalizzarlo. Dal 2008 al 2013 la Spagna ha distrutto 3,6 milioni di posti, il triplo dell’Italia, al punto che oggi solo 14 milioni di spagnoli lavorano in una nazione di oltre 47 milioni. E la bolla immobiliare ha spinto molti studenti in questa nazione relativamente giovane (età mediana a 41 anni, contro i 45 dell’Italia) a tralasciare l’istruzione per i guadagni facili dell’edilizia.
Questa pochi anni fa era un’economia al collasso, poi è successo qualcosa che in Italia non si è ancora visto. Forse semplicemente sono state le condizioni poste dall’Unione europea in cambio dell’aiuto per le banche. Forse invece è stato un clic scattato nelle loro teste nel punto più buio della crisi. «La caduta è stata così dura che gli spagnoli hanno capito che bisognava reagire, fare qualcosa, riformare» dice Rafael Domenech, capeconomista di Bbva.
È lì che si è iniziato a vedere qualcosa di diverso. E non è solo il taglio di spesa pari a 3,4 punti di Pil già portato a termine, contro i due punti di una “spending review” italiana per ora solo annunciata. Nel 2012 Madrid ha approvato una riforma del mercato del lavoro che oggi il governo di Matteo Renzi non prevede e del resto difficilmente troverebbe una maggioranza in Parlamento a Roma. In Spagna il licenziamento di un dipendente ora può avvenire su base individuale per ragioni economiche, a causa di un cambio tecnologico o anche per una semplice riorganizzazione aziendale mentre l’impresa è in utile. In condizioni normali, non è permesso il ricorso al giudice e il costo della buonuscita cala da 33 a 20 giorni per anno di durata del rapporto di lavoro. È cambiata anche la negoziazione dei contratti collettivi: vengono incentivati quelli conclusi a livello della singola azienda e questi adesso possono prevedere condizioni di turni, orari o paga peggiori per il lavoratore rispetto a quelle previste dal contratto nazionale del settore. Di recente sono arrivate anche novità sul part-time, sul modello tedesco: chi copre venti ore la settimana, se dà l’assenso alla firma del suo contratto, può essere tenuto a fare fino a 30 ore (pagate 30) con preavviso di pochi giorni. Questa norma è molto usata nel turismo, dove alberghi e ristoranti gestiscono con più facilità le ondate di arrivi di clienti dall’estero e riescono a garantire prezzi decisamente più bassi. Non a caso l’afflusso di turisti è quasi doppio rispetto all’Italia.
Infine, in un mondo del lavoro spezzato in due fra precari e garantiti, il governo da quest’anno ha iniziato a incoraggiare i contratti più stabili. Chi assume un giovane a tempo indeterminato pagherà solo 100 euro di contributi sociali per due anni, a patto che non abbia licenziato qualcun altro di recente: è un vero e proprio taglio del cuneo fiscale, che sarebbe stato impensabile senza prima una seria e profonda “spending review”.
Tutto questo può piacere o no, e a molti lavoratori che non hanno perso il posto durante la crisi comprensibilmente non piace: preferivano le vecchie tutele. Né la riforma del lavoro è il solo segreto della ripresa spagnola. L’aver osato chiedere l’aiuto europeo e usare denaro pubblico per amputare i prestiti inesigibili dai bilanci delle banche — un tabù in Italia — sta aiutando a far ripartire i nuovi prestiti alle piccole imprese, più 7,6% annuo agli ultimi dati. Ma ciò che sta accadendo per esempio nell’industria dell’auto dimostra che soprattutto la cura drastica sul lavoro sta mostrando degli effetti: Peugeot, Renault, Gm o Ford ora investono di più in impianti in Spagna. Nel Paese oggi si producono 2,4 milioni di veicoli l’anno (contro i 700 mila in Italia), quasi tutto diventa export e il ritmo delle fabbriche cresce del 9% l’anno. Secondo l’associazione costruttori di Madrid ogni cento euro investiti in catene di montaggio per l’auto ne genera altrettanti nell’indotto chimico, metallurgico, nella logistica o nel commercio.
Così, segnata dalle cicatrici ma non dal cinismo o dal pessimismo, la Spagna riparte dopo la peggiore esperienza della sua storia democratica. Il trauma l’ha spinta a guardarsi allo specchio e mettersi in discussione. Vista dal quartier generale di Desigual, a Barcellona, l’Italia appare decisamente dall’altra parte dello stesso mare.
Federico Fubini, la Repubblica 10/8/2014