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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

LO SCRITTORE D’AVVENTURA

Grecia finiva di spegnere gli immensi incendi che si erano propagati ovunque a fine agosto, il Venerdì mi inviò a raccontare la più immane tragedia, quella che si era abbattuta sul Peloponneso. Dovunque andassi, guidando in un paesaggio spettrale, dove ci si abituava a riconoscere le infinite sfumature del nero, i vecchi ripetevano una parola, «maledizione», e poiché mi sembrava che ci fosse dietro tutta la storia del Peloponneso, fin dai miti fondativi della maledizione che colpì Pelope e i suoi figli, pensai che se c’era una persona in grado di rispondermi l’avrei trovata in un non greco più greco dei greci che viveva a Kardamili, dove si apre il dito centrale della penisola, il Mani. Si trattava di un inglese coltissimo e dalla vita zeppa di peripezie e viaggi, Patrick Fermor, forse il più grande scrittore di viaggi vivente, uno capace di passare dalle antichità del mito alla contemporaneità tracciando un lieve colpo d’ali sulla pagina. Di lui e della casa in cui viveva metà dell’anno in Grecia da decenni, sapevo molte cose e soprattutto che alla sua tavola riceveva chiunque, dagli intellettuali più inavvicinabili ai lavoratori più disparati, dai nobili ai mendicanti. Metteva insieme le persone meno comuni e con loro divagava su qualsiasi argomento, magari cantando canzoni greche della tradizione popolare che lui, come pochissimi greci ormai, conosceva a menadito. «O Patrick torna domani o dopodomani», mi dissero usando l’articolo «O» di fronte al nome e solo il nome, i padroni della casa accanto, contadini suoi amici. Mi invitarono a sedere e a mangiare una sublime minestra di lenticchie di fronte al mare, a scrivergli una lettera se non potevo aspettarlo («O Patrick ama leggere lettere»), eppoi mi raccontarono di lui.
Gli amici inglesi lo chiamavano Paddy. Chatwin non poteva invidiarlo, tanto era l’affetto che provava nei suoi confronti. I paesani gli chiedevano lumi sulla situazione internazionale. Ma lui preferiva le piccole cose, anche perché le grandi cose che si era conquistato erano seguite sempre alle più piccole inezie in cui si era lasciato portare. Era bello come un attore d’altri tempi. Del resto, in altri tempi era nato.
Nel 1915, sua madre, poco dopo il parto, aveva deciso di raggiungere il marito geologo in India e aveva lasciato il piccolo a una famiglia di contadini in Northamptonshire. Così, crebbe indipendente e libero, vide i genitori la prima volta a quattro anni e stabilì con loro rapporti più stretti durante la prima adolescenza definendoli con grazia beautiful strangers. Le scuole che frequentava gli andavano strette. Dalla King’s School di Canterbury fu espulso perché visto mano nella mano con la figlia di un fruttivendolo. Brutte pagelle, giudizi sferzanti («un pericoloso miscuglio di sofisticazione e spericolatezza»), a 18 anni decise di partire. Non fu una semplice partenza. L’idea era quella di attraversare l’Europa a piedi senza accettare passaggi se non quando il tempo fosse davvero brutto, e arrivare fino alla città chiamata allora come i Greci non hanno mai smesso di fare: Costantinopoli.
Pochi vestiti, molte lettere di presentazione che andarono aumentando via via che il cammino cresceva, due libri – le Odi di Orazio e l’Oxford Book of English Verse – il viaggio si concluse a gennaio del 1937. Poco dopo, Fermor entrò nelle Irish Guards e, vista la sua conoscenza perfetta del greco, fu mandato sul fronte albanese eppoi in Grecia, a Creta. Fu qui che divenne autore di una delle azioni più memorabili. Visse per 18 mesi fingendosi un pastore greco, poi emerse dalle montagne e rapì il Generale Heinrich Kreipe, comandante delle truppe naziste, trasportandolo in Egitto e con lui declamando versi latini. La storia, raccontata in un libro firmato da chi organizzò il rapimento, l’Ufficiale W.S. Moss - Ill Met by Moonlight – fu portata sul grande schermo in Colpo di mano a Creta, un film in cui l’attore che impersona Fermor non sembra sfiorarne l’aura mitica benché si tratti di Dirk Bogarde. Dopo la guerra, Fermor continuò a viaggiare, ma soprattutto cominciò a scrivere. Un libro tra isole caraibiche nel 1950, un romanzo nel 53, un racconto di vita monacale nel 57, eppoi nell’anno seguente il libro che molti di noi hanno tenuto in tasca come una piccola Bibbia assieme all’antico Pausania, girando il Peloponneso: Mani. Viaggi nel Peloponneso (pubblicato in Italia da Adelphi). La prosa di Fermor in questa straordinaria perla è già quella che avrebbe incantato migliaia di adepti. Storie semplici, calore umano, divagazioni che esplorano la storia, la letteratura, la società, parentesi che diventano racconti e che si trasformano in analisi antropologiche e che tornano storie di ordinaria quotidianità. Miti, leggende, versi, personaggi e una quantità di raffinate digressioni che affabulano, stordiscono, stregano e infine restano sospese in una dimensione di ironica levità.
Dopo Roumeli del 1966 sempre in Grecia (ancora non tradotto), Fermor fu preso da un’idea apparentemente irrealizzabile, spinto dal ritrovamento di minuscoli e approssimativi diari che aveva dato per persi nel suo lungo viaggio da diciottenne affamato di vita come «una foca nei confronti dell’aringa che le viene lanciata». È così che uscirono i libri che raccontano quel lungo attraversamento di un’Europa perduta. Tempo di regali fu pubblicato nel 77 e Fra i boschi e l’acqua uscì nell’86 e da pochissimo è stato tradotto sempre per Adelphi (trad. A. Bottini e J. M. Colucci, pp. 291, euro 19). Dall’Inghilterra al ponte di Mária Valéria, tra Cecoslovacchia e Ungheria, il primo. Dallo stesso ponte fino alle Porte di Ferro, tra Carpazi e Balcani, il secondo. Dimore nobiliari dove il giovane Fermor dimentica il tempo (e si appassiona a sontuose feste alcoliche), paesaggi rurali percorsi a cavallo, cittadine, confini, uomini e donne che parlano lingue capaci di restituire mondi antichissimi, gitani, nomadismo, addii e amori. Mentre Hitler ha preso il potere, ancora c’è tempo per sognare una vita idilliaca. «Tutte le parti d’Europa che avevo fin lì attraversato sarebbero state dilaniate e distrutte dalla guerra» chiosa il Fermor scrittore sempre pronto a ricongiungersi al Fermor attore di quel viaggio benché sia passato mezzo secolo.
Fra i boschi e l’acqua si chiude così: «Un marinaio si sporse sopra il parapetto e lanciò la cima come un lazo fra i gabbiani. CONTINUA». Al terzo desideratissimo volume Fermor dedicò gli ultimi anni. Per esso imparò addirittura a battere a macchina. Sua moglie Joan, bella come lui, incontrata al Cairo nel 1944 e sposata nel 68, lo aveva lasciato novantunenne nel 2003. Lui aveva continuato con i soliti ritmi e il suo editore possiede il manoscritto quasi terminato del terzo volume. Non sappiamo se vedrà mai la luce. Forse i viaggi, i grandi viaggi, non possono finire mai? Fermor non rispondeva a domande di questo genere. Aveva quell’atteggiamento di sospensione assolutamente inglese benché fosse ormai così greco e, come il suo amico Katsìmbalis (il poeta che è il «colosso» raccontato da Henry Miller in Il colosso di Maroussi), fosse invincibile in qualsiasi sfida di ouzo, anche nelle più sordide taverne del Pireo. La Bbc lo aveva descritto come «un incrocio fra Indiana Jones, James Bond e Graham Greene», ma è un quadro che potrebbe andar bene solo per chi non ne ha mai sentito il nome e soprattutto non ha mai letto i suoi libri. Non era Byron, del resto, e non era Chatwin. Chatwin morendo aveva chiesto che le proprie ceneri fossero sparse accanto a una chiesetta peloponnesiaca a Exochori, poco lontano da Kardamili. Fermor, malato da tempo e novantaseienne, quando capì che non c’erano più lettere da battere sulla macchina da scrivere e non c’erano più TO BE CONTINUED da vergare, lasciò la casa di pietra di Kardamili e prese un aereo per tornare dove era nato. Il giorno dopo il suo arrivo, in Worcestershire, salutò tutti. Era l’11 giugno del 2011. I giornali italiani lo hanno quasi ignorato. È sepolto accanto alla moglie Joan nel cortile della chiesa di Dumbleton in Gloucestershire.
Matteo Nucci, il Venerdì di Repubblica 8/8/2014