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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

USA, DOVE LA PARITÀ È ANCORA UN SOGNO

Los Angeles (estate del 2014). In tutto il Paese si preparano le cerimonie del cinquantenario dei diritti civili, il volto di Martin Luther King ti guarda da tutti gli schermi tv, ma l’ottantenne miliardario Donald Sterling, storico proprietario dei Los Angeles Clippers, famosa squadra di basket Nba, non la considera certo una gran data da ricordare. Litiga piuttosto con la giovane fidanzata, perché ha postato su Instagram una foto che la ritrae con Magic Johnson, la leggenda nera del basket. Lei, molto maliziosamente, registra la sua telefonata privata («Con i neri puoi fare quello che vuoi, puoi anche andarci a letto, ma non voglio che ti fai vedere con loro alle partite dei Clippers») e poi fa arrivare l’audio in rete. Nel mondo del basket Nba scoppia una rivolta immediata, i giocatori si rifiutano di mettere la maglietta dei Clippers, gli sponsor tolgono la pubblicità; dopo appena 24 ore, David Sterling viene squalificato a vita, multato per 2,5 milioni di dollari e nel giro di quindici giorni costretto a vendere la squadra. (L’ha comprata, per due miliardi di dollari Steve Ballmer, ex amministratore delegato di Microsoft).
Cinquant’anni fa. Washington, luglio 1964. Lyndon Johnson, presidente degli Stati Uniti, in carica da meno di un anno dopo l’assassinio di John Kennedy, firma il Civil Rights Act, la legge che mette termine alla segregazione in vigore negli Stati del Sud da quasi novant’anni. Gli afroamericani (allora ancora chiamati ufficialmente negroes) non potranno più essere discriminanti nelle scuole, nei ristoranti, sui treni, nei bus, nei locali pubblici di ogni genere e sul posto di lavoro. La legge promette anche di intervenire perché sia garantito il diritto di voto.
Il Civil Rights Act è la legge più rivoluzionaria adottata dagli Stati Uniti dopo quella, voluta da Lincoln, che abolì la schiavitù nel bel mezzo della guerra civile e Lyndon Johnson, che non aveva fama di liberal, si rendeva assolutamente conto della portata della firma che stava apponendo. Si fece paladino della «guerra alla povertà» e definì quella dei neri, «così terribile e profonda da non avere paragone con quella dei bianchi»; previde che il cambio culturale sarebbe stato feroce, ma che si doveva fare, così come si disse sicuro che, per qualche generazione, il fortissimo partito democratico del Sud, fortemente segregazionista, sarebbe stato spazzato via dalla mappa geopolitica degli Stati Uniti.
Oggi gli storici riabilitano la generosità e il coraggio di quel presidente, passato alla storia invece per la disastrosa escalation in Vietnam; e si scopre che, riguardo alla segregazione, Johnson ebbe ragione in tutte le sue previsioni; ma nemmeno lui, un texano povero nato nel 1907 in una baracca, avrebbe potuto immaginare lo scherzo che gli avrebbe riservato la Storia. Un uomo che avrebbe potuto essere un suo figlio senile, o un suo nipote precoce, Barack Obama, figlio di una donna bianca e di un padre keniota, si sarebbe laureato in un’Università di Harvard che solo da poco accettava studenti neri o ebrei; avrebbe sposato una brillante avvocatessa, nipote di una donna nera analfabeta fuggita all’inizio del Novecento da una piantagione della Georgia verso Chicago, sarebbe stato eletto junior senator dell’Illinois e poi, per due volte presidente degli Stati Uniti, e quindi inquilino di quella Casa Bianca che fu costruita, alla fine del Settecento, naturalmente da manodopera schiava.
Tre anni prima di essere eletto presidente, quel giovane senatore era stato ricevuto alla Casa Bianca dal precedente inquilino, George W. Bush, che gli aveva stretto la mano e subito dopo si era ostentatamente lavato con qualche goccia di gel disinfettante marca Purell.
Che cos’era la segregazione? È finita? Cinquant’anni e il primo presidente afroamericano sono stati sufficienti per abolire anche il ricordo di secoli di sopraffazione? L’America di oggi ne discute, eccome. Un colossale ripasso della storia, della coscienza collettiva, dei segreti innominabili. Prendete i grandi film. Lincoln di Steven Spielberg, dove si vede il presidente corrompere i deputati del Congresso pur di ottenere l’abolizione della schiavitù. 12 years slave, di Steve McQueen, che ha vinto tre Oscar (la madrina di Hollywood, Ellen DeGeneres, aspettando il fatidico, ultimo e più importante and the winner is…, la si è sentita mormorare: «Speriamo sia lui, altrimenti diranno che siamo una banda di razzisti!»). Django unchained di Quentin Tarantino, rivisitazione del sadismo bianco come patologia fondante della nazione. The butler, di Lee Daniels, storia di un nero assunto alla Casa Bianca nel 1957 come cameriere e diventato poi maggiordomo sotto sette presidenti bianchi e in pensione quando arriva Obama.
Segregazione era un concetto molto specifico e molto spaventoso. In vigore negli Stati del Sud, dopo che nel 1877 gli yankees ritirarono l’esercito e lasciarono agli ex proprietari di schiavi il governo della loro economia, segregazione significava che un nero non poteva entrare in un ristorante di bianchi, frequentare una scuola di bianchi, provare una giacca in un supermarket, anche solo sfiorare la mano di una cassiera nel pagare la merce, bere alla stessa fontanella al parco. Il nero non doveva rivolgere la parola al bianco, ma solo rispondere; non doveva sostenere il suo sguardo. I neri dovevano sedersi nelle ultime file degli autobus, la loro musica non veniva trasmessa alla radio; se viaggiavano (e non era frequente) un opuscolo indicava loro dove fare benzina e i motel in cui erano ammessi. Naturalmente pochi erano quelli che osavano presentarsi per votare alle elezioni. Sulla guida del telefono, il nome di un negro era seguito da col., colorato. I negri non testimoniavano in tribunale, erano naturalmente vietati i matrimoni misti, ed era impensabile che un nero abitasse in un quartiere di bianchi. Tutto questo era in vigore nel 1960, quando gli Usa erano il Paese più ricco del mondo, l’esempio della democrazia contro il comunismo e il giovane John Kennedy veniva eletto presidente (contro la segregazione, Kennedy non disse una sola parola in tutta la campagna elettorale – ne parlò di più Nixon! – per timore di perdere al Sud i voti del partito democratico).
Quello che successe tra il 1960 e il 1964 fu però la più grande rivolta morale del ventesimo secolo. Protagonisti sconosciuti giovani afroamericani, pronipoti degli schiavi; altrettanto sconosciuti pastori di piccole chiese battiste, ma anche una determinata, patriottica gioventù bianca che partiva in pullman dalle grandi città del Nord per «andare a dare una mano», sperimentava il carcere, le botte della polizia, e l’esperienza di un mondo di terrore e violenza che nessuno di loro aveva immaginato.
La forza della non violenza si dimostrò però enorme (gli attivisti, prima di partire, seguivano un corso di tecniche gandhiane di resistenza), le immagini di cani lupo e idranti contro dimostranti inermi, di chiese incendiate, di poliziotti truci a guardia delle scuole elementari. Tutto questo conquistò, dapprima, qualche minuto e poi i primi servizi lunghi sull’allora giovanissima televisione. Il merito dei Kennedy (John e soprattutto il fratello Bob, allora procuratore generale), fu di cavalcare l’onda; il merito di Lyndon Johnson fu quello di decidere la scelta di campo, al di là del calcolo politico.
Molte di quelle migliaia di ragazzi attivisti dei diritti civili sono oggi settantenni, spesso in ruoli apicali della politica, delle università, del volontariato e costituiscono la componente liberal del partito democratico, una sorta di coscienza morale della nazione, ma il loro bilancio esistenziale non è certo solo un grafico di successi inanellati. Anzi, trovare oggi i segni di una segregazione di fatto, forse ancora maggiore della precedente, è un esercizio che dà risultati drammatici. La scuola, per esempio. I maggiori istituti di ricerca (da Pew, a Ford Foundation) fino ai lavori universitari (Berkeley, Duke, Princeton) registrano il permanere, ed anzi, l’aumento della diseguaglianza. Una ricerca dell’Università di Los Angeles-Ucla ha, per esempio, dimostrato che le scuole di una grande città democratica come New York sono di fatto segregate e seguono peraltro una divisione razziale delle abitazioni. Quartieri per i neri, scuole elementari e medie in cui trovare un ragazzino bianco è rarissimo. Idem, viceversa. Risultati scolastici nelle scuole bianche: molto migliori. Finanziamenti, molto maggiori. Tasso di abbandono, enormemente maggiore nelle scuole nere. I dati sono stati pubblicati con grande rilievo dal quotidiano spagnolo El País, che ha fatto notare come gli ispanici si affianchino ora ai neri come i nuovi discriminati. La discriminazione scolastica viaggia insieme a quella abitativa e ambedue, più che dalle leggi, sono state plasmate dal mercato.
Ecco che cosa è successo. All’inizio del Novecento, la popolazione nera per il 90 per cento abitava negli Stati del Sud. La fine della schiavitù, per legge, era avvenuta 40 anni prima, ma gli yankees non avevano dato seguito alla loro solenne promessa: i famosi «quaranta acri di terra e un mulo» per ogni schiavo liberato, scritti addirittura in un editto dai generali nordisti. Al contrario, i vecchi padroni ripresero il comando. Fu così che, primo atto di indipendenza, cominciò la grande emigrazione interna. Un bellissimo libro di Isabel Wilkerson (meritoriamente tradotto in italiano dal Saggiatore, Al calore di soli lontani) racconta per la prima volta il biblico viaggio, dal 1910 al 1960, di sei milioni di neri, dal profondo Sud verso le metropoli di Chicago, New York, Filadelfia, Los Angeles, Detroit, che cambiò il volto di quelle metropoli e diede a quelli rimasti in Mississippi ed Alabama la forza di ribellarsi. Quel fenomeno fece nascere, insieme, la nuova borghesia nera impiegata nei lavori statali e federali, ma anche i grandi ghetti urbani; la disoccupazione e l’assistenza pubblica. La rivolta e la disperazione. Il risultato ad oggi è che quelle grandi città si sono plasmate secondo un silenzioso grande disegno immobiliare discriminante, in cui l’assenza di neri era la condizione prima per l’apprezzamento del valore dell’immobile. (Oggi il valore medio nazionale del patrimonio di una famiglia bianca è di 800 mila dollari; quello di una famiglia afroamericana, 154 mila). Tutti gli altri dati statistici vengono di conseguenza.
I neri americani sono oggi 39 milioni (il 12,3 per cento della popolazione) e solo una minoranza vive negli Stati del Sud. La presenza dei neri in politica è aumentata di dieci volte, ma i senatori neri sono ancora solo due. Dei 2,2 milioni di americani in carcere, il 67 per cento sono afroamericani. I bianchi consumano molta più cocaina o metanfetamina dei neri, ma i neri in carcere per droga sono dieci volte i bianchi. I neri dominano le classifiche dei condannati a morte, in guerra ne muoiono il triplo dei bianchi. In compenso, se cinquant’anni fa solo un ragazzo nero su quattro terminava la scuola media, oggi a farlo è l’85 per cento; e per l’università si è passati dal 4 al 21 per cento. Si potrebbe continuare, ma il senso è chiaro. Cinquant’anni di diritti civili hanno formato una middle class nera che prima non esisteva, ma hanno poco inciso su quelli che stanno al fondo della scala sociale.
I paradossi: il vecchio razzista Sterling non resiste più di 24 ore nel mondo miliardario del basket; ma un ragazzo nero in Florida può essere ucciso senza conseguenza per l’assassino «perché aveva un cappuccio e mi sembrava armato». Oprah Winfrey, conduttrice televisiva ed una delle donne più potenti d’America, ha protestato perché in un negozio in Svizzera ha indicato una borsetta da 40 mila dollari e la commessa, che non sapeva chi era quella signora afroamericana, le ha detto «questa è troppo cara per lei»; ma il tasso di povertà dei neri d’America continua ad essere il doppio di quello dei bianchi.
Perché le cose sono andate così? La ricerca può essere dolorosa. Mi racconta Phil Ryan, uno di quelli che andarono al Sud all’inizio degli anni Sessanta, per poi diventare un grande avvocato difensore dei diritti civili. «Eravamo su un pullman scolastico, ragazzi bianchi e neri, a Jackson, capitale del Mississippi, quando una cinquantina di donne bianche si misero tutte insieme a spingere sulla fiancata. Con la sola forza delle mani cercavano di rovesciare il veicolo, e nelle loro facce c’era il panico. Davvero non riuscivano a concepire che i loro bambini potessero essere seduti vicino a un bambino negro. Mi sono sempre chiesto da dove venisse tanta disperazione». La risposta non stava tanto nell’economia o nell’egoismo, stava nel cervello di quelle donne. Centocinquant’anni di schiavitù avevano davvero convinto i bianchi di due cose: che i neri erano animali, non umani; e che erano una loro proprietà. Qualcosa che si comprava, si vendeva, si poteva ferire ed anche uccidere, ma pure addomesticare. L’oscenità di questo rapporto aveva talmente deformato il cervello dei bianchi che l’idea di una qualsiasi uguaglianza era per loro paurosa. «Era una cosa cui nessuno li aveva preparati, nessuno li aveva abituati». Per questo videro negli yankees un esercito di occupanti usurpatori, per questo Rossella O’Hara mangia compulsivamente le radici di Tara, per questo quando venne eletto Obama in tutto il Sud i bianchi andarono a comprare pallottole. Si preparavano alla inevitabile rivolta dei neri, l’incubo che avvolgeva tutta la loro vita.
Il Civil Right Act incise in maniera profonda, ma quel peccato originale rimane. Le statistiche di oggi lo riflettono e riconoscono la diversità della minoranza nera da tutte le altre nel Nuovo Mondo. Ce l’hanno fatta gli irlandesi, ce l’hanno fatta gli italiani, ce l’hanno fatta gli ebrei, ma tutti sanno che con gli afroamericani è diverso; l’indipendenza e l’emancipazione di un popolo che ha vissuto più da schiavo che da libero nella propria nazione rende il periodo dell’emancipazione per legge – i cinquant’anni che ci separano da quella storica firma – una piccola unità di misura all’interno di una grande tragedia.
La speranza (o il terrore) che la presidenza di Obama avrebbe dato un’accelerazione al tema dell’uguaglianza razziale non si è realizzata. Il primo presidente nero (che peraltro, secondo gli antichi standard dello scrupolosissimo razzismo americano, sarebbe un mezzosangue) è stato particolarmente cauto e attento a non introdurre mai elementi di radicalizzazione della «questione nera». Piuttosto si è soffermato più volte sull’importanza del ruolo del padre nella famiglia nera, e nella sua dissoluzione come momento non secondario della povertà afroamericana. E, a sorpresa, ha legato il suo passaggio nella storia all’approvazione dei diritti dei gay, ben sapendo di toccare un principio di autorità tradizionalmente molto esteso.
La sua presidenza sta per finire, tra appena due anni. Fece di più per l’uguaglianza razziale Lyndon Johnson di quanto ha fatto Obama? Domanda insidiosa, ma che interesserà sempre meno l’America del futuro. Il ventunesimo secolo del Nuovo Mondo sarà più probabilmente messicano, cinese o transgender, che ne(g)ro.
Enrico Deaglio, il Venerdì di Repubblica 8/8/2014