Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 10 Domenica calendario

LEGGERE PROUST PER RIMORCHIARE


Caro Marco,
anzitutto, temo di dovermi scusare con te per l’indebita ingerenza. Non sono certo il tipo che si mette a sindacare sui gusti letterari altrui. Non sono incline al proselitismo culturale, alla retorica del leggere-schiude-la-mente. Diciamo che per certi versi mi rifaccio al vecchio adagio di Woody Allen: «Gli intellettuali sono la prova vivente di come si possa essere coltissimi senza cogliere la realtà oggettiva». Inoltre, dubito che esistano libri indispensabili. Si può vivere beatamente senza Giocasta e Amleto. E poi cosa c’è di più capriccioso e insindacabile del gusto? È assurdo provare a convincere chi non ne sopporta l’odore che i tartufi bianchi sono squisiti. Così come non ha alcun senso provare a persuaderti dell’indispensabilità della Recherche di Proust.
Anni fa vidi in tv un’intervista a Lemmy Kilmister, il frontman dei Motörhead. Quando gli chiesero perché avesse iniziato a suonare il basso lui rispose: «Che domande! Per rimorchiare le pollastre, per cos’altro se no?». Un esempio da scuola di pansessualismo freudiano. Be’, caro Marco, a quanto dici, le ragioni che, a suo tempo, ti spinsero verso Proust non sono così lontane da quelle che indussero Kilmister a imbracciare il basso. E ti prego di credermi quando affermo che stento a immaginare ragioni più serie. Perché leggere Proust? Per rimorchiare le pollastre. La fatica di portarsi dietro uno di quei famosi volumoni ripagata da un incremento di appeal erotico. A quanto dici, con il tuo compagno di università funzionò. Bah, qualcosa dice a me che se Proust funzionasse così bene — almeno quanto il basso di Kilmister — io avrei avuto un’adolescenza meno spaventosa. Ma questa è un’altra storia (molto più triste).
Torniamo alla Recherche . E a quello che scrivi sulla noia che ti suscita, la sensazione che il vero tempo perduto sia quello impiegato a leggerla. Si tratta di quel tipo di argomenti che non possono essere confutati. La noia è un impulso su cui nessun ragionamento potrà mai avere la meglio. Dubito che qualcuno riuscirà a convincere le mie palpebre a non serrarsi sfinite di fronte a un paio di righe di Simenon. E, del resto, nel mio piccolo, quando un lettore mi dice che i miei libri lo annoiano da morire alzo le spalle: problema suo, non certo mio. Comunque, mi sono fatto l’idea che la noia che Proust produce in molti lettori (e anche in te) derivi dalla sintassi. Una volta lessi un saggio di una studiosa francese che attribuiva il caratteristico giro di frasi di Proust all’asma che lo tormentò per tutta la vita. È come se le sue estenuanti proposizioni riproducessero lo sforzo dei polmoni di trovare un po’ d’aria là fuori. Una tesi bislacca, ma dopotutto suggestiva. Le frasi di Proust sono l’espressione di un mondo asfittico, claustrofobico, introflesso. Lui scrive di sentirsi come un gufo (non nel senso renziano del termine) che prova a farsi strada nelle tenebre. Un’immagine che rende a pieno lo sforzo titanico di comprensione e di evocazione.
Capisco che uno stile così privo di naturalezza possa risultare insopportabilmente soporifero. E credo che su questo non ci sia molto altro da dire, né da sindacare.
Ti seguo con maggior difficoltà, invece, quando cerchi nella Recherche un’opera che ti aiuti a «scoprire la memoria del tempo perduto». Forse questa è la magagna: cercare qualcosa di introvabile nel luogo sbagliato. A dispetto del titolo (converrai con me: uno dei più belli della storia della letteratura) la Recherche non parla né di tempo perduto né di tempo ritrovato. O meglio lo fa, ma per meri intenti promozionali. Il Tempo (doverosamente con la «t» maiuscola) andava parecchio di moda all’epoca di Proust. E lui era un genio del marketing. Ma, come comprese immediatamente Beckett, la Recherche non parlava di tempo perduto e di tempo ritrovato. Bensì di quanto la vita sia insensata. E di quanto, proprio per questo, sia impossibile conferirle un senso. La Recherche è un’opera nichilista. Sullo sbriciolamento di ogni cosa (arte compresa). La Recherche è un’opera sulle intermittenze del cuore umano: com’è possibile, si chiede Proust continuamente, che la ragazza che amavo tanto (per cui mi sarei fatto uccidere) ora non mi dica più niente? Com’è possibile che i lineamenti di mia madre, per non dire del suono della sua voce, siano scomparsi per sempre dalla mia coscienza ad appena un anno dalla sua morte? Altro che tempo ritrovato. Proust è il primo a saperlo: il tempo non si ritrova più.
Alla Recherche non giovano certo tutti quei baci della buonanotte, tutti quei dolcetti inzuppati nel tè, tutti quei tramonti in riva al mare.
La Recherche è una tragedia in sette atti. Ma anche una commedia, piena di situazioni buffe. C’è chi lo ritiene addirittura un romanzo comico (Madame Verdurin, Charlus, le zie del Narratore sono personaggi strepitosamente divertenti). La Recherche è un romanzo di formazione in cui l’eroe impara a sue spese che non c’è niente da imparare. La Recherche è un romanzo di costume in cui gli snob si comportano esattamente come i nostri radical chic. La Recherche è un romanzo di avventura (certi intrecci sono degni di Dumas), e a suo modo persino un romanzo di guerra (come il Voyage di Céline). La Recherche è un romanzo pornografico (già, assai più di quanto non sia un romanzo erotico): onanismo, pedofilia, sadismo non fanno che darsi il cambio. La Recherche è un romanzo che profetizza la Shoah ebraica in un modo sconvolgente. E naturalmente la Recherche è il romanzo di una coscienza infelice. Insomma la Recherche è un romanzo multitasking, un labirinto, una summa.
Dai, vecchio mio, riprovaci. Hai tutto agosto davanti a te. È uno di quei romanzi che, al contrario di ciò che si pensa, non vanno rispettati. Vanno solo vissuti.