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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - SENATO, ALITALIA E ALTRI SUCCESSI DI RENZI


REPUBBLICA.IT
ROMA - Il ddl Boschi è stato approvato in prima lettura al Senato con 183 voti a favore e 4 astenuti. Nessun contrario, perché le opposizioni Gal, Lega, Sel e M5s hanno scelto di non partecipare al voto per rimarcare le critiche alla riforma e alle modalità del suo esame. Diversi senatori della maggioranza si sono espressi in dissenso. Ora il provvedimento, che reca "disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione", passa per la seconda lettura. Ne occorreranno almeno quattro, tra Camera e Senato, come avviene per i ddl di rango costituzionale. Il ministro delle Riforme, titolare del ddl, Maria Elena Boschi: "E’ stato un passaggio importante e impegnativo, non è mai venuta meno la determinazione. Siamo tutti soddisfatti. E’ un primo segnale della voglia di cambiamento e della capacità di rispettare gli impegni presi con i cittadini".
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Concluso nella serata di ieri l’esame dei 40 articoli del ddl Boschi e relativi emendamenti, l’assemblea di Palazzo Madama si è ritrovata in seduta questa mattina alle 9,30, come preannunciato ieri sera dal presidente Pietro Grasso, per le dichiarazioni di voto alla riforma del Senato e alla modifica il titolo V della Costituzione, cui sarebbe seguito il voto finale sull’intero provvedimento.
LA SIMULAZIONE: MENO PARTITI E MOLTO INCOGNITE
Presente tra i banchi del governo il ministro Boschi, c’era il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Ci si aspettava anche Renzi, atteso nel pomeriggio dall’ultimo Consiglio dei ministri prima delle ferie. Renzi al Senato non si è visto, ma dopo il voto ha esultato su Twitter.
I senatori del Movimento 5 Stelle, dopo essersi auto-esclusi dai lavori sul ddl Boschi nei giorni precedenti, hanno lasciato l’Aula del Senato prima del voto, dopo l’intervento del capogruppo Vito Petrocelli. Anche la Lega non ha partecipato al voto finale, per marcare una totale presa di distanza. Non hanno votato Sel e gruppo misto, contro una riforma, nelle parole del capogruppo Loredana De Petris, "imposta con la forza muscolare e con ottusa brutalità dal governo e da una metà del Senato". Stessa posizione ha assunto Gal.
"Sì" alla riforma da Scelta Civica e Gruppo per l’Italia. Il capogruppo Luigi Zanda, dopo aver espresso il voto favorevole dei senatori del Pd, si è detto dispiaciuto che i senatori M5S siano "usciti dall’Aula: questo atteggiamento non corrisponde alla mia idea di Parlamento". In precedenza, tra i banchi del Pd sono circolati dei foglietti. Vannino Chiti, esponente dem tra i più esposti nella critica alla riforma interna al partito, ha portato a Zanda un manifestino, che il capogruppo Pd ha guardato con attenzione prima di ripiegarlo. A distanza, riferiscono le agenzie, si potevano leggere in testa i nomi dello stesso Chiti oltre a Civati e Mineo. Qualche riga sotto, a caratteri cubitali, la scritta "Vergogna". Chiti ha portato al presidente Grasso un altro foglietto, probabilmente dello stesso contenuto di quello consegnato a Zanda.
IL FOTOCONFRONTO: CHI VINCE E CHI PERDE
Lo stesso Chiti, ricordando i punti critici della riforma e le proposte alternative messe all’angolo, ha parlato a nome dei dissidenti Pd. "Non vogliamo delegittimare il Parlamento, ma non parteciperemo al voto per due motivi: per critica alla riforma e perché prosegue il confronto, per rendere questa riforma più efficace". Chiti ha concluso facendo esplicito riferimento al Patto del Nazareno: "Utile nei rapporti tra due forze importanti, ma non colonne d’Ercole intoccabili, dobbiamo cercare il dialogo con tutte le forze politiche che si rendono disponibili".ì
Per Ncd, Gaetano Quagliariello ha annunciato il voto favorevole, ma ha parlato anche dell’Italicum, su cui Ncd si batte per preferenze e ritocco delle soglie, una "battaglia di sistema, sulla quale auspichiamo la convergenza di tutte le forze interessate a costruire istituzioni che stiamo armonicamente in piedi, a cominciare dalle forze della maggioranza. Perché, a fronte di un Senato con elezione di secondo grado, sarebbe intollerabile una Camera di nominati".
Il capogruppo Paolo Romani ha certificato il "sì" di Forza Italia e ha sottolineato "il clima di legittimazione politica" alla base del ddl Boschi: "Questa riforma porta due firme: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Stiamo scrivendo una pagina storica". Ma "al governo - ha aggiunto - non riconosciamo il merito di aver tagliato le tasse. Vi siete dimenticati delle aziende. Noi faremo opposizione vera, leale e responsabile".
Parole che si ricollegano evidentemente a quanto scritto in una lettera fatta recapitare ieri sera da Silvio Berlusconi ai senatori azzurri. "Noi unica opposizione responsabile e credibile", si legge, rispetto a un governo "incapace di ridurre le tasse e di tagliare la spesa sociale", mentre i dati del Pil "sono i peggiori degli ultimi 14 anni" e l’Italia è "in piena recessione". Ma il passaggio più significativo della missiva è certamente quello in cui l’ex Cav auspica il personale ritorno alla "piena agibilità politica ed elettorale entro pochi mesi".
Con Chiti, in dissenso con i rispettivi partiti, sono intervenuti, tra gli altri, anche la senatrice a vita Elena Cattaneo, i senatori del Pd Corradino Mineo e Walter Tocci, Augusto Minzolini di Forza Italia.
La senatrice Cattaneo ha ricondotto la sua astensione, in dissenso con il suo gruppo Aut-Psi-Maie, a tre motivazioni: "Il contesto generale di scarso ascolto e il linguaggio inadatto", "un dibattito troppo condizionato da strategie di governo e di partito", un progetto "tecnicamente pasticciato e frettoloso, non in grado di indicare l’esito, l’assetto, l’equilibrio, la visione del nuovo assetto costituzionale". "Non mi convince - ha aggiunto - la non elettività dei senatori, non mi convince la modalità di elezione del presidente della Repubblica".
Augusto Minzolini ha comunicato che sarebbe uscito dall’aula al momento del voto e ha attaccato Grasso, che "aveva cominciato come un leone, permettendo alcuni voti segreti, poi si è piegato al volere della maggioranza, come un moderno Don Abbondio. I padri costituenti si staranno rivoltando nella tomba". Quanto a Renzi, "il premier sa che la maggioranza di questa Aula non condivide questa riforma", come ha dimostrato "il voto segreto" in cui il governo è andato sotto.
Il senatore della Lega Roberto Calderoli, relatore di minoranza del ddl, ha ufficializzato la sua astensione dal voto, "che potrebbe trasformarsi in voto contrario" se nelle prossime letture del provvedimento non saranno sciolti "i molti nodi" della riforma. E ha criticato il presidente Grasso: "Oltre 1400 emendamenti saltati in un colpo solo: il suo canguro ha un jet nel sedere".

IL NUOVO SENATO
ROMA - Chi farà parte del nuovo Senato? Quali saranno i rapporti di forza tra i vari schieramenti? Sono queste le domande più immediate a poche ore dalla prima approvazione del ddl Boschi. Partiamo dai numeri. L’unica cosa certa, al momento. Cento è la platea totale dei nuovi inquilini di Palazzo Madama, ai quali andranno poi aggiunti gli ex presidenti della Repubblica.
Elezione e composizione della nuova Camera sono previsti dall’articolo 2 del ddl, giustamente definito il ’cuore’ della riforma: 95 sono i rappresentanti che spettano alle istituzioni territoriali, 5 i senatori di nomina presidenziale. I primi restano in carica per un periodo coincidente con il loro mandato ’di provenienza’, gli altri per sette anni. La ripartizione dei 95 senatori ’territoriali’ è così articolata: 74 sono eletti tra i componenti dei Consigli regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano, gli altri 21 tra i sindaci. In tutti i due casi l’elezione spetta comunque al Consiglio.
Quanto alle modalità dell’elezione si rinvia a una legge ’ordinaria’ che dovrà essere approvata successivamente dalle Camere. Forse, visto che si parla di norme per l’elezione - seppur indiretta - di una delle due Camere, potrebbe finire tutto nel calderone dell’Italicum. Ma c’è anche la possibilità che la maggioranza voglia tenere separate le due leggi.
Il ddl Boschi fissa solo alcuni paletti numerici: nessuna regione infatti potrà avere un numero inferiore a due membri, così come le province autonome di Trento e Bolzano. Un altro criterio riguarda poi la popolazione: il numero di senatori sarà proporzionale al numero degli abitanti. Ne consegue che le regioni più popolose avranno una pattuglia più consistente di rappresentanti a Palazzo Madama. E perciò ad avere più senatori saranno perciò Lombardia, Campania, Lazio, Sicilia e Veneto.
Il terzo principio indicato dal disegno di legge fa riferimento al rispetto della composizione dei Consigli. In altre parole la pattuglia dei senatori dovrà essere espressione dei rapporti di forza interni a ciascuna regione. Quindi il numero dei senatori andrà diviso tra maggioranza e opposizioni.
L’ultimo capitolo da tenere presente riguarda i sindaci. In una prima formulazione del ddl sarebbero stati senatori di diritto i primi cittadini dei comuni capoluogo di regione. La versione finale però lascia al Consiglio regionale la libera scelta tra tutti i sindaci regionali. Ecco perché non è scontato che a sedere a Palazzo Madama siano, tanto per fare qualche esempio, Ignazio Marino, Giuliano Pisapia o Piero Fassino.
Una simulazione del nuovo Senato. Considerando tutte queste variabili, e facendo qualche ipotesi e qualche (piccola) forzatura e semplificazione, abbiamo provato a fare una simulazione degli schieramenti su come apparirebbe oggi il nuovo Senato, tenendo conto delle elezioni che hanno determinato i Consigli attualmente in carica. Nella distribuzione dei senatori ci siamo basati su alcuni modelli attualmente allo studio del Parlamento.
Nel dettaglio questa sarebbe una delle ipotesi considerate: Lombardia (11 senatori), Campania e Lazio (8), Sicilia e Veneto (7), Piemonte, Emilia Romagna, Puglia e Toscana (6), Calabria, Sardegna, Liguria, Marche, Abruzzo e Friuli Venezia Giulia (3), mentre alle restanti spetterebbe la quota ’minima’ (2 senatori).
Numeri da dividere tra maggioranza e opposizioni, considerando uno spettro politico spaccato in tre tronconi: centrosinistra (Pd, ma anche Sel), centrodestra (Fi, Ncd, Lega) e Movimento 5 stelle. Abbiamo assegnato i ’senatori’ che spettano alla maggioranza di ogni regione in base al colore della giunta e del consiglio, dividendo invece i senatori che spettano alla minoranza tra gli altri due gruppi.
In base a questo modello (tralasciando i sindaci e i componenti nominati dal capo dello Stato) il Senato delle ’autonomie’ avrebbe una forte connotazione di centrosinistra con una forbice oscillante tra i 34 e i 37 membri. Al centrodestra sarebbero ascrivili tra i 23 e i 31 senatori, mentre appare più diffile formulare un’ipotesi realistica per il M5S che si contenderebbe in quasi tutte le regioni la quota spettante all’opposizione. A seconda delle varie ipotesi i grillini potrebbero conquistare tra i 4 e i 19 senatori.
Numeri da prendere evidentemente con molta cautela. A questi schieramenti andrebbero poi aggiunti un paio di seggi spettanti a partiti con una forte connotazione territoriale, come l’Union Valdôtaine che ne avrebbe 2 e la Sudtiroler Volkspartei con 1.
Un successo che costituisce però un’eccezione nel panorama generale. Nel nuovo Senato infatti - è una delle conseguenze più evidenti - a farla da padrone sarebbero i partiti più grandi, con poche chance per le forze minori soprattutto nelle regioni più piccole. Assegnare a una regione solo due o tre senatori, da un punto di vista di ingegneria elettorale, vuol dire creare una soglia di sbarramento virtuale molto alta, con i partiti maggiori che - al netto di accordi all’interno delle coalizioni - è più probabile che reclamino il diritto a quel seggio.
Per quanto riguarda i sindaci, l’ipotesi è più difficile da fare. Ma se venisse confermato con legge ordinaria l’impianto originario della riforma Boschi (ovvero che sono senatori i sindaci dei 21 comuni capoluogo), la maggioranza di centrosinistra aumenterebbe ulteriormente, visto che lo schieramento di centrosinistra governa in 17 città. Così il centrosinistra potrebbe avere 51-54 senatori su 95, il centrodestra 37-40 senatori e il Movimento 5 Stelle (che non governa nessuna di queste città) rimarrebbe a 4-19 seggi.

LA NAVETTA COSTITUZIONALE
ROMA - Ora tutto o quasi è in mano alla Camera. Con l’approvazione da parte del Senato del disegno di legge costituzionale che abolisce il bicameralismo perfetto, si avvia la ’navetta’, così è chiamato il passaggio dei disegni di legge tra Senato e Camera, nella sua versione ’costituzionale’. Questo perché la Costituzione prevede (è l’articolo 138) che per le modifiche costituzionali ci sia un procedimento rafforzato di modifica.
Ora quindi il ddl Boschi andrà alla Camera, che affronterà il ddl nel suo complesso, in prima lettura. Quindi passerà in commissione e poi in aula, e si potranno presentare emendamenti e modifiche su ogni singolo punto della legge. In teoria, il ddl potrebbe uscire completamente rivoluzionato da Montecitorio; in pratica, i numeri sono dalla parte del governo e della maggioranza per le riforme, che con tutta probabilità imporranno solo minime modifiche al testo.
A questo punto che succede? Ipotizziamo che - come è probabile - la Camera approvi solo piccole modifiche, e non sui punti sostanziali che Renzi considera inamovibili (superamento del bicameralismo perfetto e Senato non elettivo). Dopo l’approvazione, il ddl tornerà a Palazzo Madama che però potrà proporre emendamenti e approvare modifiche solo agli articoli cambiati nel passaggio alla Camera. Le forche caudine del Senato, che tanto hanno fatto penare la maggioranza delle riforme in questo passaggio, saranno quindi molto depotenziate.
A quel punto si procederebbe a tappe successive, dal Senato alla Camera e indietro, fino all’approvazione dello stesso testo. Ma probabilmente la navetta - se la maggioranza regge - si fermerà al secondo passaggio al Senato o al massimo a un ulteriore tappa a Montecitorio.
A quel punto tutto andrà in stand by per tre mesi, il tempo richiesto dalla Carta per i disegni di legge di modifica costituzionale. Poi la Camera e il Senato voteranno nuovamente sul ddl, ma sarà solo un voto ’prendere o lasciare’ sul complesso del provvedimento. Niente emendamenti, niente discussioni, solo un sì o un no alla legge così come è stata approvata tre mesi prima. Anche qui, i rischi di una bocciatura - visti i numeri - dovrebbero essere minimi.
Se l’approvazione nelle seconde votazioni avverrà a maggioranza assoluta, sarà possibile un referendum popolare sulla legge, se "entro tre mesi dalla pubblicazione ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi". In questo referendum non è previsto nessun quorum
Infine sempre l’articolo 138 stabilisce che non è possibile il referendum "se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti", ma questa possibilità è comunque esclusa dal governo, che ha garantito che il referendum si terrà comunque.

IL NUOVO SENATO
ROMA - La fine del bicameralismo perfetto, con il potere legislativo - e soprattutto quello di dare e negare la fiducia al governo - che si sposta alla Camera dei deputati. L’elezione indiretta dei nuovi senatori, che saranno solo 100 (non più 315) e saranno scelti dai consiglieri regionali. La conferma dell’immunità parlamentare insieme alla fine delle generose indennità da 14 mila euro che oggi incassano i senatori. Le corsie preferenziali per i disegni di legge del governo, ma anche per le proposte dell’opposizione. L’introduzione del referendum propositivo. La riscrittura delle competenze dello Stato e di quelle delle Regioni. L’abolizione delle Province e del Cnel. Il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali. C’è tutto questo, e anche altro, nella riforma della Costituzione che esce dal Senato, una profonda riscrittura della Carta - 40 articoli, contro i 57 della riforma approvata dal centro-destra nel 2005 e poi bocciata con il referendum popolare - che non si limita a sterilizzare il potere di indirizzo politico di Palazzo Madama ma riscrive le regole-chiave del procedimento legislativo.

Renzi aveva messo in conto la prevedibile resistenza dei senatori ad approvare una riforma che elimina i 315 seggi su cui loro oggi sono seduti, eppure il disegno di legge del governo - difeso a Palazzo Madama dalla ministra Maria Elena Boschi - è arrivato al voto finale senza subire stravolgimenti. Due soli emendamenti sgraditi - con modifiche marginali - sono passati grazie al voto segreto, anche se in commissione il testo aveva subito un vistoso rimaneggiamento soprattutto per mano di Roberto Calderoli, che ha saputo sfruttare con furbizia la sua doppia veste di relatore di maggioranza e di manovratore dell’opposizione leghista per mantenere a Palazzo Madama un grappolo di poteri, l’ultimo dei quali è la competenza legislativa sul matrimonio e sul diritto alla salute.

SARANNO SOLO CENTO
Il voto del Senato è solo il primo passo di un complicato percorso che prevede due votazioni per ciascuno dei due rami del Parlamento e quasi certamente, alla fine, un referendum popolare confermativo. Dunque non è detto che la riforma resti così com’è, visto che sullo sfondo rimane un malumore diffuso - anche tra i banchi del Pd - per la scelta di sottrarre l’elezione dei senatori ai cittadini per darla ai consiglieri regionali, non proprio ai vertici della popolarità ("A questo punto sarebbe meglio abolirlo, il Senato" è stato in questi giorni il commento più ricorrente, nei corridoi di Palazzo Madama). Quella di oggi è in ogni caso una tappa fondamentale, per la riforma. Innanzitutto perché segna un punto di non ritorno nel superamento del bicameralismo perfetto, una particolarità tutta italiana che nel tempo si è rivelata un freno al processo legislativo. I nuovi senatori, come dicevamo, saranno solo 100 (95 eletti dalle Regioni tra consiglieri e sindaci più 5 senatori di nomina presidenziale) e - fatta eccezione per la prima volta - non saranno eletti tutti contemporaneamente ma in coincidenza del rinnovo dei Consigli regionali. Per loro non è più prevista l’indennità (che viene riservata ai soli deputati).

I RISPARMI
Quanto si risparmierà? Se si considera che oggi un senatore senza cariche particolari riceve ogni mese più di 14 mila euro - tra indennità, diaria e rimborsi forfettari per viaggi e assistenti - lo Stato eviterà una spesa di circa 50 milioni di euro. Altri risparmi saranno ottenuti unificando il personale di Camera e Senato e riorganizzando i servizi "secondo criteri di efficienza e razionalizzazione", come recita una delle disposizioni transitorie, anche se nessuno sa quantificare esattamente di quanto diminuirà il costo di Palazzo Madama (il cui bilancio oggi si avvicina al mezzo miliardo di euro).

I NUOVI POTERI
Dunque saranno solo in 100, e senza indennità. Ma per fare cosa? Il Senato non voterà più la fiducia al governo, e solo per alcune materie conserverà la funzione legislativa e i poteri di sindacato ispettivo. Potrà per esempio interrogare i ministri, verificare l’attuazione delle leggi, esprimere pareri sulle nomine governative e nominare commissioni d’inchiesta sulle autonomie territoriali, ma da Palazzo Madama dovranno passare solo le riforme della Costituzione, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali e - grazie all’emendamento leghista approvato a scrutinio segreto - il diritto di famiglia, il matrimonio e il diritto alla salute. Tutte le altre leggi saranno di competenza della Camera dei deputati.

FINE DEL PING-PONG
Eppure il Senato conserverà un potere di intervento anche su quelle. Non come oggi, certo. Potrà esprimere proposte di modifica (su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti), ma in tempi strettissimi: gli emendamenti dovranno essere votati entro trenta giorni, dopodiché la legge tornerà alla Camera che si pronuncerà definitivamente (e potrà anche respingere le proposte di modifica). I senatori saranno chiamati a esprimersi anche sulle leggi di bilancio (molte le obiezioni bipartisan, su questo punto) ma dovranno votare le proposte di modifica entro 15 giorni: anche in questo caso però l’ultima parola spetterà alla Camera. Infine, se la maggioranza assoluta dei suoi membri sarà d’accordo, il Senato potrà chiedere alla Camera di esaminare un determinato disegno di legge, che dovrà essere messo ai voti entro sei mesi.

LA CORSIA PREFERENZIALE
Ma non finisce qui. Cambierà radicalmente il potere del governo nel procedimento legislativo. Sarà obbligato a rispettare norme più rigide per l’emissione dei decreti-legge, che dovranno recare "misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo", ma in compenso avrà il potere di chiedere che sui provvedimenti indicati come "essenziali per l’attuazione del programma di governo" la Camera si pronunci entro il termine tassativo di 60 giorni: alla scadenza del tempo, ogni provvedimento sarà posto in votazione "senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale".

LO STATO DECIDE
Nello stesso tempo, con la modifica del Titolo V, viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle Regioni. Mentre oggi vengono elencate tutte le materie su cui queste ultime possono legiferare, con la riforma è lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva (politica estera, immigrazione, rapporti con la Chiesa, difesa, moneta, sistema tributario, burocrazia, ordine pubblico, cittadinanza e stato civile, giustizia, diritti civili, salute, istruzione, previdenza, leggi elettorali locali, dogane, ambiente, beni culturali e paesaggistici, ordinamento delle professioni, energia, infrastrutture strategiche, porti e aeroporti).

LA PAROLA ALLA CORTE
Viene introdotto l’esame preventivo di costituzionalità. Le leggi che regolano l’elezione della Camera e del Senato possono essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale (che deve pronunciarsi entro un mese) su richiesta di un terzo dei componenti di una Camera.

QUIRINALE
Cambiano anche le regole per l’elezione del presidente della Repubblica. L’attuale Costituzione impone il quorum dei due terzi fino al terzo scrutinio, oltre il quale è sufficiente la maggioranza assoluta. La nuova norma richiede invece il quorum più alto per primi quattro scrutini, poi lo fa scendere ai tre quinti nei successivi quattro, e solo alla nona votazione lo abbassa alla maggioranza assoluta dei "grandi elettori". L’emendamento per far partecipare gli europarlamentari all’elezione non è passato, in Senato, ma il governo si è impegnato a "individuare nel percorso parlamentare alla Camera una modalità di elezione del Presidente della Repubblica che ne rafforzi il ruolo di garanzia".

ALITALIA
ROMA - C’è la firma. L’ad di Alitalia, Gabriele Del Torchio, e il Ceo di Etihad, James Hogan, hanno firmato il contratto dell’accordo tra le due compagnie: il vettore emiratino salirà quindi al 49% della società della Magliana dopo l’approvazione da parte delle autorità europee. Si chiude così una trattativa lunga e complicata dopo che questa mattina l’assemblea degli azionisti di Alitalia aveva approvato i termini dell’accordo. "Ce l’abbiamo fatta, dopo tanta fatica, tante notti e un anno di lavoro" ha detto Del Torchio.
Via libera, dunque, alla ricapitalizzazione che ricostituirà il patrimonio e cancellerà i 560 milioni di debiti - per un terzo cancellati dalle banche, il resto trasformato in azioni - poi arriverà finalmente il momento della firma della pre-intesa: gli emiri si impegneranno in sostanza a versare 560 milioni per rilevare la partecipazione (sotto il 50% per non perdere i diritti di volo nella Ue) e a garantire altri 600 milioni circa di investimenti futuri per cambiare il volto della società italiana.
"Etihad - ha detto Hogan - è felice di investire per costruire un’Alitalia più forte e di dare un servizio di qualità. Avere Alitalia come partner, per noi, è fondamentale". Sul piatto la compagnia emiratina metterà complessivamente 1,758
miliardi. L’ingresso degli arabi negli capitale dell’ex vettore di bandiera porterà anche a un netto cambio di strategia con focus maggiore sul lungo raggio. L’obiettivo è il ritorno alla reddittività "rendendo più sexy la compagnia".
Il periodo di integrazione tra le due compagnie non sarà però semplice. Alitalia, infatti, ha bisogno di essere stabilizzata: "Non vogliamo eliminare quello che c’è, ma stabilizzare l’azienda - ha proseguito Hogan -. I sindacati hanno firmato accordi per permettere di ristrutturare e rilanciare il marchio". Il manager però avverte: "Ci saranno scelte difficili da fare". Gli ha fatto eco Del Torchio: "Ci dispiace per chi dovrà lasciare Alitalia. Ma per creare un futuro a volte servono decisioni dolorose".
E nella notte la Uil Trasporti ha sottoscritto il contratto nazionale di settore e l’accordo sulla riduzione del costo del lavoro in Alitalia. Il sindacato, che era l’unica sigla a non avere ancora firmato, ha motivato la decisione di accettare le intese dicendo che sono stati risolti i "nodi ostativi sia sul piano contrattuale che sulla riduzione del costo del lavoro". L’annuncio è arrivate prima dell’assemblea degli azionisti e nel pieno della protesta dei lavoratori della compagnia che da giorni paralizzano la movimentazione dei bagagli a Fiumicino e starebbero presentando in massa certificati di malattia.
(08 agosto 2014) © Riproduzione riservata

RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
PEZZO DEL CORRIERE DI STAMATTINA
ROMA — La Camera approva in modo definitivo la riforma della Pubblica amministrazione. Il provvedimento, che passa con la fiducia, è «legge», dice con soddisfazione il premier Matteo Renzi su Twitter aggiungendo: «Adesso sotto con la delega e i decreti attuativi ». E ieri in tarda serata, contrariamente alle previsioni, l’aula del Senato ha approvato (con 155 sì e 27 no) il decreto sulla competitività: il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, ha posto di nuovo la fiducia per la conversione definitiva. Il documento contempla, tra l’altro, norme sull’Ilva, sulla riduzione delle bollette, i rifiuti nel Lazio, l’Opa e pacchetti ad hoc su ambiente e agricoltura, nonché l’esclusione delle nutrie dalle specie tutelate.
Tornando alla legge sulla Pa (il decreto n.90 passa con 303 sì e 163 voti contrari, oltre a 9 astenuti), il ministro della Semplificazione, Marianna Madia, fa notare che questo «è il primo tassello di una riforma importante», ma il cantiere resta aperto e la stessa Madia si augura di poter iniziare al più presto con il disegno di legge delega sulla Pa, «chiudendolo per la fine dell’anno». I pilastri della norma, secondo il ministro, sono «le semplificazioni, l’anticorruzione, la mobilità e l’equità nei compensi pubblici». Per il sottosegretario Angelo Rughetti quello che esce fuori «è uno Stato più facile e meno costoso». E sulle polemiche mai sopite sullo stralcio di «quota 96» (i 4 mila insegnanti esodati), Madia taglia corto: «I rilievi del ministero dell’Economia ci hanno fatto fare una scelta politica, ma il governo è unito».
Tra le nuove regole fissate dal decreto sulla Pa, ecco alcuni particolari: dalla fine di ottobre nessun dipendente pubblico potrà restare a lavoro dopo avere raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia, mentre finora la carriera poteva protrarsi ancora per due anni. Le pubbliche amministrazioni potranno mandare a riposo i loro dipendenti a 62 anni (quattro anni prima del previsto), purché abbiano l’anzianità massima. Un dipendente pubblico potrà essere trasferito da un ufficio all’altro, nel raggio di 50 chilometri, senza motivazioni: tutto ciò non vale per i genitori con bambini sotto i 3 anni o sotto la legge 104. Inoltre le amministrazioni pubbliche possono procedere ad assunzioni che non superino il 20% delle spese sostenute per quanti sono usciti nel 2014, la percentuale si alza al 40% nel 2015 per arrivare al 100% nel 2018: previsti mille nuovi assunti tra i vigili del fuoco. Nel documento anche la riduzione graduale del 50% in tre anni delle iscrizioni dovute dalle imprese alle Camere di commercio. Forte spinta sul fronte della sburocratizzazione: il decreto lancia il vademecum con moduli standard per l’edilizia e l’avvio di attività produttive (Scia), pubblicati su www.impresainungiorno.gov.it. Sempre sul fronte informatizzazione, il dl mira anche a velocizzare il processo amministrativo digitale.
Il decreto sulla competitività invece prevede, tra l’altro, un nuovo spalma incentivi per le piccole e medie imprese con la riduzione del 10% delle bollette. Per il polo siderurgico dell’Ilva viene introdotto il prestito ponte, oltre al rafforzamento del ruolo del subcommissario ad hoc per il Piano di risanamento e lo sblocco delle risorse della famiglia Riva poste sotto sequestro. Sempre sul fronte ambientale si prevede l’accelerazione di interventi contro il dissesto idrogeologico, procedure semplificate per le bonifiche e l’estensione di indagini nella «Terra dei fuochi». Per aiutare i giovani sono stati inseriti provvedimenti per la concessione di mutui a tasso zero e per la detrazione al 19% per affitto dei terreni a under 35.
Francesco Di Frischia