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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

IL PETROLIO NON BALLA PIÙ


Fumi neri, scarpe infangate, uomini imbruttiti dal freddo. Sembra uno di quei paesaggi descritti da Charles Dickens in “Oliver Twist”, solo che qui non siamo a Londra e non è nemmeno il diciannovesimo secolo. La scena si svolge a Fort McMurray, stato dell’Alberta, Canada. Il biposto sobbalza quando sorvola le ciminiere della Suncor, colosso dell’energia locale. Sotto l’aereo scorrono gli Euclid, giganteschi camion che servono per trasportare quelle che qui chiamano “tar sands”, in italiano sabbie bituminose, una poltiglia di terra e petrolio di cui questa area del mondo è particolarmente ricca. I nativi della zona, la tribù dei Cree, le usavano per rendere impermeabili le chiglie delle canoe. Ora che si è trovato il modo per separare il greggio dal fango, le sabbie bituminose stanno trasformando il Canada in uno dei maggiori produttori di petrolio. Un cambiamento che sta avendo conseguenze in tutto il mondo, anche in Italia.
Le sabbie bituminose sono solo uno dei tanti prodotti compresi nell’immensa categoria del greggio non convenzionale. Gamma che include anche tight oil, shale oil, oil shale. Per farla breve, tutti questi nomi indicano petrolio difficilmente estraibile, o almeno così era fino a qualche anno fa. La presenza nel sottosuolo di queste risorse non è infatti mai stata un segreto per le compagnie energetiche. La differenza tra ieri e oggi è rappresentata dalla tecnologia. Complici gli alti prezzi del barile degli anni passati, alcune società del settore hanno iniziato a investire in nuovi metodi per l’estrazione. Così, procedendo per tentativi, hanno trovato il modo di rendere sfruttabile questa immensa ricchezza sparpagliata un po’ in tutto il mondo, ma di cui sta beneficiando solo il Nord America. Motivo? Ad avere le conoscenze per estrarlo, per ora, sono soprattutto compagnie d’Oltreoceano, come la statunitense Halliburton e la canadese Suncor.
Per comprendere la rivoluzione in corso basta dare un’occhiata all’ultimo rapporto di British Petroleum sulle riserve globali. Grazie alle sabbie bituminose, dal 2004 al 2013 il Canada è passato dalla dodicesima alla terza posizione nella classifica dei Paesi più ricchi di greggio, dietro a Venezuela e Arabia Saudita. Ma i veri protagonisti di questo nuovo Grande Gioco sono gli Stati Uniti. Pur non potendo contare su riserve abbondanti come quelle canadesi, gli Usa hanno infatti sotto terra un sacco di shale oil: petrolio più facile da estrarre, e di qualità maggiore, rispetto a quello contenuto nelle sabbie bituminose. Ecco perché, dice l’Agenzia internazionale per l’energia, entro l’anno prossimo gli States diventeranno i primi produttori globali di greggio, avvicinandosi all’indipendenza energetica nel giro di due decenni. E pensare che, fino a una decina di anni fa, importavano circa la metà della produzione mondiale di oro nero.
La città simbolo di questa svolta è Williston, in North Dakota, sede del più grande giacimento sfruttato al mondo, quello di Bakken Shale. Qui l’oro si chiama shale oil: petrolio intrappolato nelle rocce argillose. Per estrarlo bisogna fratturare i sassi, come si fa per il più famoso shale gas. Il cosiddetto metodo del “fracking” prevede d’iniettare nelle rocce grandi quantità d’acqua, unita a sabbia e agenti chimici, perché solo così il greggio può fluire in alto. Di giacimenti di shale oil ne sono stati scoperti in North Dakota, Texas, Wyoming, Colorado, Oklahoma e California. Insomma, la nuova corsa all’oro nero coinvolge tutti gli Stati Uniti. Con feroci polemiche per i rischi ambientali, prima fra tutte la contaminazione delle falde acquifere. E con notevoli vantaggi per l’economia locale. Innanzitutto l’aumento dei posti di lavoro nel settore, raddoppiati in 10 anni. Ma soprattutto i minori costi del greggio, come dimostra la differenza emersa negli ultimi anni tra i prezzi del Wti e del Brent, sigle di riferimento per il petrolio americano e quello internazionale.
Una rivoluzione economica, dunque, ma anche geopolitica. Basti pensare che gli Usa sono sempre stati dipendenti dalle risorse del Medio Oriente, mentre ora si avviano all’autosufficienza. Sarà dunque la fine delle guerre in nome del petrolio? Si vedrà. Intanto, per capire le conseguenze globali del boom americano, vale la pena guardare all’Iraq, uno dei più importanti produttori al mondo.
A giugno il Paese è diventato il grattacapo numero uno delle diplomazie mondiali. Colpa delle milizie sunnite dell’Isis, comandate dall’autoproclamatosi califfo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, che in un paio di mesi ha già conquistato un terzo dei pozzi iracheni. Nei giorni della presa di Mosul, la principale città controllata dall’Isis, il prezzo del barile (Brent) è salito fino a 114 dollari, il massimo da un anno a questa parte, per poi ridiscendere verso quota 100. «Se non ci fosse stata la nuova capacità produttiva del Nord America», dice Alessandro Zappa, analista di Kommodities Partners, «un evento come quello iracheno avrebbe portato il prezzo almeno a 140 dollari». Nemmeno il caos libico, dove città come Tripoli e Bengasi sono oggi in balia delle bande armate, è riuscito finora a scalfire i mercati.
Discorso estendibile a altre aree calde, Nigeria, Venezuela, Iran: tutti grandi produttori di petrolio che, per motivi diversi, ultimamente hanno ridotto i flussi. «Queste nazioni fanno mancare al mercato 3 milioni di barili al giorno su un consumo totale di 90-91 milioni, eppure il prezzo resta contenuto. Il motivo è semplice: l’offerta cresce a tassi più alti della domanda», spiega Leonardo Maugeri, ex direttore delle Strategie di Eni e oggi docente ad Harvard. Maugeri era stato tra i primi a prevedere il boom americano del petrolio non convenzionale. Ora, come altri, si spinge a dire che il prezzo potrebbe presto precipitare. «Dal 2011 al 2013», è il suo ragionamento, «sono stati spesi circa duemila miliardi di dollari per sviluppare nuova capacità produttiva di petrolio e gas. È stato il ciclo d’investimenti più massiccio della storia. Una volta che questa capacità produttiva arriverà sul mercato, se la domanda non avrà nel frattempo un rimbalzo violento o se le tensioni geopolitiche non resteranno ai livelli attuali, ci troveremo in una situazione di sovrapproduzione. Ecco perché dall’anno prossimo in poi il barile potrebbe andare anche sotto i 70 dollari».
Che succederà allora? Gli esperti concordano: al momento, per i produttori, i pozzi non convenzionali americani non sono sostenibili sotto i 70 dollari. In più, il crollo dei prezzi metterebbe i brividi a tutti i Paesi che basano la propria economia, e di conseguenza la stabilità politica, sui proventi del greggio. Secondo una ricerca di Deutsche Bank, i primi della lista sono Venezuela, Bahrein, Nigeria e Russia. Stati che, volendo mantenere i livelli di spesa pubblica attuali, hanno bisogno di un barile di Brent sopra i 100 dollari. «Se scendesse sotto gli 85 dollari, la Russia andrebbe in bancarotta», ha detto di recente l’ex premier Romano Prodi a “l’Espresso”. Insomma, un crollo del prezzo farebbe contenti i grandi importatori come Cina e Europa, ma scatenerebbe conseguenze imprevedibili nel resto del mondo, costringendo peraltro gli Usa a congelare la nuova corsa all’oro nero.
Non tutti, in realtà, credono che il boom americano durerà a lungo, e non è solo questione di prezzo. Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico della rivista specializzata “QualEnergia”, «questi pozzi stanno dimostrando una velocità di esaurimento superiore al previsto. Si potrebbe arrivare a un picco di produzione già entro il 2020». Prospettiva che modificherebbe sostanzialmente gli scenari tracciati dagli ottimisti dello shale oil. Nel frattempo, però, la quasi autosufficienza del Nord America ha modificato i flussi di petrolio nel mondo.
Fino a pochi anni fa, quello del Medio Oriente finiva per lo più negli Stati Uniti. Oggi, secondo un rapporto del think tank Chatham House, tre quarti del greggio mediorientale fanno rotta sui porti asiatici di Singapore e Hong Kong. Pure l’Europa, sebbene in maniera inferiore, inizia a risentire del cambiamento. Lo dimostra il caso dell’Italia, che nei primi cinque mesi di quest’anno ha ricevuto il 3,9 per cento delle sue importazioni dal Canada, fornitore assente fino all’anno scorso (vedi figura a pagina 97). Che succederà se anche gli Usa, come si vocifera, toglieranno il divieto sulle esportazioni di greggio e inizieranno a venderlo nel Vecchio Continente?
Matthew Bey, analista dell’agenzia di intelligence Stratfor, dice a “l’Espresso” che non c’è da preoccuparsi: «Anche se il bando verrà cancellato, gli Stati Uniti non diventeranno un grande fornitore per l’Europa, perché buona parte del greggio estratto serve per soddisfare la domanda interna». Ma è solo il Nord America ad essere così ricco di petrolio non convenzionale? La risposta è che Canada e Stati Uniti sono stati i primi a sfruttare queste risorse, non gli unici a possederle. Se si considera solo lo shale oil, nella classifica dei primi Paesi al mondo per riserve ci sono infatti anche Cina, Argentina, Libia. E in vetta si trova la Russia di Vladimir Putin. Insomma, la corsa al nuovo oro nero sembra essere solo all’inizio.
Resta un problema. Se non si vuole assistere a un aumento della temperatura media terrestre superiore ai 2 gradi, considerata la soglia di non ritorno per evitare impatti devastanti sull’ambiente e l’economia mondiale, almeno due terzi di queste riserve non vanno estratte. Lo dice il 98 per cento della comunità scientifica mondiale (rappresentata dal supergruppo di ricerca Ipcc), ma anche alcune organizzazioni lontane dalle istanze verdi come l’Agenzia internazionale per l’energia e la Banca mondiale. Il presidente americano, Barack Obama, si è detto d’accordo: «Non possiamo bruciare il petrolio fino all’ultima goccia», ha dichiarato. Peccato che sia stato proprio lui, grazie allo shale oil, a riportare gli Stati Uniti nell’empireo delle potenze petrolifere. Quando anche Russia e Cina decideranno di estrarre le riserve non convenzionali, sarà difficile dire loro di astenersi in nome dell’ambiente.