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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

LA FUGA DELLE RACCHETTE


William “Pato” Alvarez era stato un tennista mediocre. Colombiano di Medellin, uomo dal braccio rude e dal raffinatissimo senso degli affari, negli anni Settanta inaugurò un centro privato di allenamento per professionisti a Barcellona. Pochi campi in affitto, niente strutture o federazioni di mezzo, niente cariche o prebende: l’ex insegnava ai giovani ambiziosi, vendeva la sua competenza. Se funzionava, si guadagnava in abbondanza per tutti (Alvarez, quasi ottantenne e in ottima salute, è milionario).
Così quell’atleta pensionato, panciuto, piantò il fusto della sua racchetta nella pancia di un giacimento d’oro nero, creando un metodo: la scuola spagnola.Dagli anni Ottanta, la Spagna è il nuovo Klondike del tennis. Rafa Nadal è uno dei campioni più vincenti di sempre, i tennisti spagnoli paiono prodotti in stamperia: un campionificio che fa man bassa di trofei e fattura centinaia di milioni di euro. Nel mentre Adriano Panatta, figlio del custode dei Parioli di Roma, osava sfidare i titoloni in monopolio a Rivera e al dio Calcio centrando il triplete: il trionfo nel torneo di casa, a Parigi e infine la Coppa Davis in Cile, piegando le minacce della sinistra comunista («Non si giocano volée / contro il boia Pinochet»). Poi, il declino. Si spense la fiammella del successo, l’inondazione di praticanti ispirati dalle veroniche del bell’Adriano pian piano rientrò. Il prototipo del tennista italiano prestante e vincente, in mancanza di una ricetta per competere in uno sport dalla concorrenza sempre più feroce, virò dalla silhouette tonica di Panatta al normotipo impiegatizio fantozziano, dipinto da Nanni Moretti in Aprile nel 1998: «Fatti i muscoli, così non ti vengono quelle spallucce vittimiste dei tennisti italiani, che perdono sempre per colpa dell’arbitro, del vento, della sfortuna, del net». L’Italia andò a perdersi nella mediocrità, con qualche felice eccezione: Camporese, Gaudenzi, Canè, Furlan.
Poi qualcosa cambiò. Estate 2014: Sara Errani e Roberta Vinci centrano un titolo nel tempio di Wimbledon, prato inviolato da generazioni di italiani dal 1877. Le ragazze, nel giro di due anni, hanno messo le mani su tutti i tornei dello Slam (Melbourne, Parigi, Londra, New York); la minuta Errani, in singolare fa a spallate con amazzoni come Maria Sharapova e ha già giocato una finale al Roland Garros, nel 2012. Fabio Fognini, un talento raro con una altrettanto inconsueta e deprecata cupio dissolvi, ad aprile ha toccato la posizione numero 13 nella classifica mondiale. Dato trascurabile, se letto con i crismi della rude mentalità calcistica (o primo, o niente). Eppure, in tutta la storia azzurra, solo le stelle di quel decennio di fuoco avevano ottenuto di più: Panatta fu quarto, Barazzutti settimo, Bertolucci dodicesimo. Il prossimo settembre, la nazionale italiana giocherà contro la Svizzera di Federer e Wawrinka una semifinale in Coppa Davis: exploit mai registrato nel nuovo millennio da una squadra precipitata nei gironi dell’infamia, serie B e sortite in C. In Fed Cup, omologo femminile dell’Insalatiera, il confronto di prestigio non regge eppure vale rimarcare che l’Italia rosa, giammai protagonista fino al 2006, ha incassato quattro ed è tuttora campionessa in carica.
Ma perché si è tornati a vincere? E quanto pesa il metodo spagnolo nella carriera dei nostri campioni di oggi? Nel decennio aperto con il primo trionfo femminile in una prova dello Slam, il clamoroso Roland Garros 2010 catturato da Francesca Schiavone, il tennis italiano sta conoscendo un ciclo beato nonostante la latitanza di un supereroe, un Tomba, un Valentino Rossi. Rispondere può essere un inghippo: in una materia non cartesiana come lo sport, è piacevole raccontare storie di successo, possibilmente “compiute” e coerenti, e offrire spiegazioni a posteriori, non per forza veritiere. I nuovi fasti del tennis italiano non nascono da una fonte univoca, dalla Schiavone o dal solo spirito di emulazione: non siamo in Francia, dove l’indotto del Roland Garros finanzia migliaia di centri pubblici periferici, che reclutano gli scolari più dotati di qualità motorie. Anzi: nella nostra scuola lo sport agonistico è spesso osteggiato, figurarsi una disciplina individuale e dispendiosa come il tennis. «Il campione ce lo porta la cicogna», si scusava allegramente un anziano presidente della federazione, l’avvocato Paolo Galgani, negli anni di una recessione gestita con sperperi e inettitudine.
Non aveva tutti i torti: il fenomeno è anche figlio del caso. Eppure, qualche fattore comune al successo c’è. Anche distante dall’Italia, magari a casa di Pato Alvarez. A poco più di vent’anni, Flavia Pennetta - prima italiana a frequentare la top ten - lasciò Milano per piantar la tenda in Spagna. Come un neolaureato ambizioso che molla casa e paga precaria per realizzarsi a Londra, lei trovò dimora al Real Tenis Club di Barcellona, il nuovo centro d’affari mondiale del tennis. Si fece allenare da un giocatore dalla carriera operaia, Gabriel Urpi; lasciatisi due anni fa, ne assunse un altro, Salvador Navarro, suo attuale coach e complice nel trionfo in un appuntamento clou del calendario, il torneo di Indian Wells. Il sistema Spagna è semplice come lo si vede: niente supercentri ipertrofici e ministeriali ma minuscoli team privati, guidati da giocatori dal retroterra agonistico solitamente trascurabile. Gente che sa insegnare, praticoni che conoscono profondamente il tennis, non sanno nulla di biomeccanica ma vivono delle percentuali sui ricavi dei giocatori adottando un approccio empirico al gioco: si fa ciò che serve per essere più forti, non per diventare più bravi. Nadal, tecnicamente discorrendo, è ben lungi dall’eccellenza, così tanti colleghi iberici. Il tennis non è un’esibizione di maestria, almeno, non più: si vince molto con le gambe e con la testa, poco con i tocchi di McEnroe e Leconte. A chi le chiede conto dell’espatrio precoce, la Pennetta suole rispondere che in Spagna non è che abbia trovato più campi o maestri; né ci si allena necessariamente di più, ma meglio.
Sara Errani è di Massa Lombarda, vicino a Ravenna. Suo padre vende frutta e verdura all’ingrosso. Non trovò alcun maestro (mestiere, che, in Italia, in più di cent’anni è riuscito a non dotarsi di un albo) disposto a mollare i ricavi sicuri delle lezioni private alle sciùre per scommettere sul suo successo. A Valencia, sì. I suoi coach si chiamano Pablo Lozano e David Andres: casa Errani non è la Romagna ma l’estremo est spagnolo, al circolo Tennis Val. Manco a dirlo, fondato da due ex tennisti modesti, i signori Altur e Alvariño. È lo stesso club di David Ferrer, ragazzo che in Italia avrebbe smesso ancor prima di iniziare: piccolino, anonimo, sapeva solo correre e tirare il dritto. Laggiù, capirono che sarebbe diventato più forte dei ragazzini che fino a 14 anni lo stracciavano. Ora è una superstar, ha portato a casa 26 milioni di euro in montepremi, contratti esclusi. Certi suoi pari età italiani, a 32 anni, insegnano il servizio al direttore di banca nei campetti di periferia e gli raccontano di quel giorno in cui diedero una lezione a Ferrer, nel torneo junior. Se un Gianni Ocleppo, numero 30 nel ranking nel 1979, aveva trovato un maestro al circolo marittimo di Noli, accanto a Savona, Fabio Fognini non è rimasto ad Arma di Taggia. Pure lui ha preso casa, come miss Pennetta, a due passi dal Real Tenis, è socio del circolo. Il suo mentore non parla il dialetto di De Andrè: è mister Jose Perlas, già coach di fuoriclasse come Carlos Moya.
La federazione italiana ha affidato, da qualche stagione, la responsabilità dei giovani più brillanti a Eduardo Infantino. È un argentino. I coach della promessa Gianluigi Quinzi, Eduardo Medica prima e Marcos Gorriz ora, arrivano dal Sudamerica e sono cresciuti con lo stesso Dna dello “zio” Alvarez: vince chi sbaglia meno, ha la testa più dura e più benzina a fine match. Sostanza tanta, lingua poca. Così, ci facciamo coltivare le piante da chi sa farle germinare. In attesa che una cicogna sbagli aerovia, chi se ne importa della raccolta a chilometri zero.