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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

«SONO UNA “POETA” DON CHISCIOTTE CHE INSEGUE L’AMORE PURO CON I VERSI» [

L’ultima intervista a Maria Luisa Spaziani] –
Il 30 giugno 2014 è una data importante per la letteratura italiana. Muore a Roma Maria Luisa Spaziani, la “poeta” forse più rilevante del Novecento. Non tutti i critici l’hanno amata. Ma tutti ne hanno scritto, e bene. Lei è stata una donna di un’attività forsennata. Ha spaziato dalla poesia alla critica, dalla prosa al teatro. Ed è stata anche una donna che ha saputo vivere nel mondo della cultura mantenendo rapporti di amicizia e collaborazione con i maggiori nomi della poesia, del romanzo e degli altri campi letterari, compresa la musica (italiani e stranieri). Ha fondato premi tra cui il “Montale” (e ne ha ricevuti tantissimi), ha inventato la “cattedra di poesia”, alla quale sono stati invitati e studiati i maggiori poeti italiani. Avendo imparato alcune lingue (per volontà del padre che ambiva destinarla alla gestione della sua azienda torinese) ha tradotto molti autori francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli. Ma la sua grande passione è stata la Francia, la sua lingua e la sua letteratura, che ha insegnato a Messina come titolare di cattedra, dove è stata chiamata «per chiara fama» a insegnare lingua e letteratura tedesca. Ma nel giro di due anni, ha conquistato la cattedra che più le interessava: quella di francese, appunto. Nel Meridiano Mondadori a lei dedicato, Tutte le poesie, pubblicato nel 2012, a cura di Paolo Lagazzi e Giancarlo Pontiggia, la sua lunga (è morta a 91 anni), articolata e per certi versi avventurosa biografia è ampiamente attraversata in parallelo all’analisi della sua opera poetica. A parte qualche plaquette e piccole anticipazioni, si contano dieci raccolte organiche, tutte pubblicate da Mondadori nella collana “Lo Specchio”, a cominciare da Le acque del sabato del 1954, fino a La luna è già alta del 2006.
Quando l’ho incontrata per questa intervista dopo l’uscita del Meridiano – rimasta inedita per miei motivi di salute che non vale la pena spiegare – stava già lavorando a un’ulteriore raccolta.
La sua poesia è stata tradotta in tutto il mondo. Lascia un grande numero di inediti, soprattutto prose (due romanzi) che pensava di pubblicare ma non ha fatto in tempo. Il suo grande rammarico – mi ha detto – era di non aver potuto dedicare troppo tempo alla figlia Oriana, nei primi anni di vita, impegnata com’era a fare la pendolare tra Roma e Messina, dove insegnava.
Paolo Lagazzi nell’introduzione al Meridiano con tutte le sue poesie scrive che lei è «leggera e profonda», seria e giocosa. Si riconosce?
«Vorrei che i lettori fossero invogliati a leggermi come se facessi delle confidenze: le mie poesie non sono costruzioni intellettuali, ma abbandoni. Bisogna che l’intelligenza in poesia si allei con la sensibilità profonda. Bisogna che ci sia la nostra vita nella poesia. Un cedimento verso la prosa, a meno che non sia intenzionale, la fa fallire. Essa esiste quando le immagini sono adeguate al dislivello tra l’esistente e il simbolo. Nelle note di Lagazzi e Pontiggia mi riconosco, certo. Le loro domande mi hanno costretta a recuperare episodi e particolari perduti nel passato, dimenticati. Giuro che ho letto tutto come un romanzo. Mi sono sentita come una Don Chisciotte alla ricerca della sua memoria. Spesso le domande sono necessarie per far riapparire scenari e cose spariti».
Lagazzi sottolinea che lei non ama la parola “poetessa” e preferisce “poeta”. Sarà perché si sente un animo maschile?
«Mi sento l’animo del poeta, maschile e femminile insieme. La parola “poetessa” mi sembra un po’ ridicola, da Ottocento. Rappresenta l’icona della signora dabbene che dice la sua poesia senza alcuna capacità autocritica, che vede i figli così come “deve” vederli. Insomma un modo di essere nella poesia come colei che non ha null’altro da fare e può dedicarsi a sogni e sentimenti senza il filtro dell’esistenza reale. Poeta non presuppone un genere. È tale perché lo è, al di là dell’essere maschio o femmina».
Uno dei suoi temi rilevanti, se non il maggiore, è l’amore. Ma alla fine lei è rimasta sola.
«Amore, tu sei il mio Dio, ti seguo, ti obbedisco con gioia, soffro con delizia. In uno dei miei libri, La traversata dell’oasi, forse il mio maggiore – e col tempo si capirà sempre di più – l’amore sofferto è tutta un’altra cosa. Non è solo sessualità, libertinaggio, passione e sensualità, ma è la scoperta di cose mai dette, è l’invenzione di modi nuovi di essere insieme. Le sfumature dell’amore non possono essere tradotte solo in conversazione. Nel libro ci sono cose mai dette da una donna. I versi “A giorni alterni sono io la luna/ e tu l’immensa terra che mi attira,/ e questa notte tu, tu sei la luna/ -io ti tengo al guinzaglio -”, quando uscì il libro (2002), erano ancora ideologicamente e stilisticamente inaccettabili. E infatti le reazioni furono controverse. L’uomo era ancora il padrone (o credeva di poterlo essere), emanatore di luce, e doveva essere rispettato. Quella metafora non poteva essere adottata da una donna. Ci tengo a dire che La traversata è un libro importante nel mio percorso artistico: è amore puro. Tutto fissato su un uomo, reale, vivente. Questo amore, che ho vissuto molti anni prima della scrittura, diciamo circa quindici anni prima, quando avevo 65 anni, mi ha fatto capire che ci si può innamorare a qualsiasi età. L’amore è un fatto di fantasia e la fantasia non invecchia. Si ama sempre come se si avesse 20 anni. Certo, poi, nella graticola del quotidiano l’amore è sempre difficile, ma non impossibile. Ho amato altri uomini, a cominciare da Elemire Zolla che ho conosciuto da giovane a Torino e che ho sposato. Ma questo che rivive ne La traversata è stato uno straordinario ciclone. Per questo il libro resta forse il mio più bello, perché l’amore è la cosa più bella che ha l’essere umano, quando ce l’ha. È vero, sono alla fine rimasta sola. Ma la vita e l’amore li ho vissuti, eccome!».
Un altro suo libro ugualmente fondamentale?
«La Giovanna d’Arco. È un canto del destino personale. Tutti ne hanno uno, ma quasi sempre non lo sanno, non se ne rendono conto. Si accontentano di sopravvivere e mi fa rabbia. Le persone potrebbero fare cento cose in più di quello che fanno. Ma si adagiano. Capita che moltissimi arrivano alla fine della vita senza sapere quello che avrebbero potuto fare, come avrebbero potuto essere. Se fossi Dio, proprio questa gente punirei. Ho amato questa figura della storia sin da ragazzina. Già a 14 anni ho scritto tre ottave su di lei, andate perse. Il fascino di questa famosa combattente per me era che lei nella sua vita si è trovata al centro di una serie di cose che mi riguardano: che cosa è il destino, che cos’è la vocazione. Attraverso di lei ho avuto la percezione che quando si parte bisogna andare direttamente alla meta, senza deviazioni. La freccia deve raggiungere il bersaglio. E in me c’era la freccia che doveva raggiungere e penetrare la poesia».
La poesia è necessaria? Perché?
«Perché in poesia non si possono dire bugie. La poesia nasce dalla scelta perfetta del significato delle parole. Purtroppo molti poeti oggi usano la prosa, che spesso proviene dal notariato o comunque da gerghi o linguaggi paraprofessionali. L’incomprensibilità talvolta vale, ma in genere è la negazione della poesia. Come quando uno si traveste e non si capisce chi veramente è. Italo Calvino una volta intervistato su come avrebbe dovuto prepararsi l’uomo per il Duemila imminente, rispose: “Studiando qualche poesia a memoria”. Il poeta non può barare. Se lo fa, tradisce la sua missione, la sua vocazione. Per farmi capire, le racconto un aneddoto. Una volta, nel 1957, un industriale milanese mi diede la fotografia di una bellissima bionda/sirena dicendomi: “Se lei mi fa una poesia coinvolgente, ispirata dalla bellezza di questa donna, le darò cinquecentomila lire. Questa era la somma che allora guadagnavo in un anno. Fu una forte tentazione. Mi misi al lavoro, ma il bulino non affondava. Dopo un mese gli ho detto che rinunciavo. La vera poesia non viene su commissione né su comando né su preghiera. La poesia non si lascia abbindolare. Ancora adesso dal mondo della pubblicità mi arrivano richieste di versi finalizzati a una campagna, segno che evidentemente la poesia è un messaggio convincente e seducente. In cambio mi propongono molti soldi. Ma la poesia non viene fuori. Insomma, la poesia dice cose, cioè verità, che riguardano la gente. Ed è efficace proprio perché il poeta parla di lei e per lei, e non per se stesso. La poesia interpreta i bisogni, i timori, i sogni fondamentali dell’umanità. Non si può fare in modo artificioso, con l’inganno verso gli altri (quindi ingannando se stessi). La poesia è solo quello che è. Universale, indefinibile, penetrabile, infallibile. È la parola perfetta di cui l’uomo, l’umanità, ha bisogno. Il poeta non scrive per tornaconto. Quando lo fa, deraglia».
Arriva una telefonata e Maria Luisa Spaziani risponde. Conversa con un signore che le pone un problema. Deve essere l’amministratore del palazzo dove abita. Ci troviamo nell’appartamento che la poeta occupa a Roma, quartiere Prati. Nel soggiorno/studio dove stiamo parlando, un pomeriggio del mese di luglio di due anni fa, c’è una grande confusione di libri su scaffali, ma anche sparsi sul tavolo da lavoro e per terra, di qua e di là, e ci sono anche mucchietti di giornali, riviste, cartelle. In evidenza, sul tavolino in mezzo a noi ci sono alcuni libri di Racine. Appesa su un’anta dello scaffale c’è un’icona di Leopardi. Qualche quadretto di stampe antiche. Sul divano dove sono seduto, accanto a me c’è un cuscino foderato con una tela ricamata a punto erba, la figura è una volpe, ricavata da un disegno di Eugenio Montale, il suo grande amico storico. Su di lui ha scritto il libro Montale e la volpe, in cui come scrive Lagazzi la scrittrice riesce a fare un ritratto di Montale divertente nelle sue umoralità, ma anche a tornire il profilo di quella epoca letteraria, mondana, artistica, «anche di pregnanza storica». Riprendiamo la conversazione.
Montale la chiamava “volpe”. Perché? Lei ha scritto un libro sul vostro rapporto. Ma me lo dica con le sue semplici parole di oggi.
«In verità, è stato mio padre a darmi questo appellativo. Mia madre aveva gli occhi obliqui, e chiamandomi in quel modo forse voleva asserire la mia somiglianza con lei, per gli occhi. Perché gli occhi obliqui sono un elemento di seduzione (per esempio, Haudrey Hepburn aveva gli occhi da volpe, ma anche moltissime altre donne). Montale invece, da poeta, diceva dei miei “le mandorle tenere degli occhi”».
A proposito di Montale, perché se ne è innamorata? Uomo ostico quasi con tutti, passato attraverso molte donne, timido e perciò anche aggressivo, spesso pavido ma all’improvviso anche irosamente reattivo (mai violento però, se mai insofferente). Che cosa l’ha conquistata in lui? Sarò cattivo: forse lei con lui è stata opportunista?
«Non ho mai detto o scritto di essere stata innamorata di Montale. Lui è stato per anni innamorato di me. Ci sono le sue poesie a dimostrarlo. Ma mie poesie o lettere in tal senso non esistono. Io gli sono stata sempre vicino, amichevolmente. Certi legami nascono e restano così. La parola giusta da usare è “sodalizio”: parola antica, ma vera, riferita anche nel risvolto amoroso. Due persone convergono su un “terzo punto”. Io e Montale abbiamo avuto insieme una “vita poetica”. Ma la nostra non si può definire “storia d’amore” (almeno non nel significato vero e logico). Sarebbe un errore, un equivoco, un falso. E comunque posso dire che Montale mi manca, se fosse vivo avrebbe continuato a essere per me l’interlocutore ideale. Anche se era geloso e intollerante verso le mie altre amicizie, per non parlare dei miei amori. Conclusione: un libro come La traversata dell’oasi io per Montale non l’ho scritto, non potevo scriverlo. Ho avuto sei storie d’amore, vero, passionale, carnale. E sono quelle da cui sono nate le mie poesie d’amore. E non sono state avventure alle Seichelles. Sono state scintille di fuoco che mi hanno bruciata. Le storie d’amore per diventare poesie devono radicarsi, ustionare».
Alla fine, chi è Maria Luisa Spaziani? Una furba, un’ingenua, un geniaccio, una donna infelice, o che cosa?
«Forse un po’ tutto questo e magari niente di tutto questo. Donna, che scrive, che ha una figlia di 46 anni che non ha alcuna tendenza o attenzione verso la poesia, una donna alla quale il padre suggeriva di fare l’imprenditrice e in realtà avevo cominciato facendo una rivista (che mi fece conoscere Montale, tra l’altro). Però non era quello che volevo fare, sin da giovane la mia passione è stata la poesia, e l’ho seguita anche se ho dato una delusione a mio padre. Ho amato la poesia di Montale sin da ragazza. Secondo me esistono le consanguineità. Non tutti però riescono a scoprirle e a nutrirsene. Perciò, alla sua domanda non ho una vera risposta. Forse l’unica cosa che posso dire è che sono una donna che scrive poesia. Scrivere vuol dire amare, è una proiezione dell’amore. L’occhio sulla pagina è il cuore nel mondo. Le parole sono verità. Verità personali, e nello stesso tempo verità universali. La vita è così tragica che bisogna prenderla di traverso, con ironia, alleggerendo le situazioni. Non avere paura di essere soli se hai amato e sei stato amato. E l’amore è poesia. E la poesia è vita».