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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

VITA (E IMMAGINI) DELLE DONNE CHE, DALLA CADUTA DI HITLER AL MEDIO ORIENTE, HANNO MESSO LE GUERRE NEL MIRINO


«Anche quest’anno ho trascorso la maggior parte del mio tempo in zone di guerra. Per darti un’idea, sono stata due volte in Afghanistan, in primavera per coprire le elezioni presidenziali per Time e a giugno per il New York Times. Poi a maggio ho lavorato nel Sud Sudan, dove tuttora infuriano i combattimenti e la crisi umanitaria è enorme, e ho trascorso la seconda metà di giugno a Najaf, in Iraq, feudo degli Sciiti che si stanno preparando, come dicono loro, alla “guerra contro i terroristi”, ovvero i jihadisti dello Stato Islamico di Iraq e Siria». Chi ci parla è Lynsey Addario, la più nota fotografa di guerra a livello internazionale. «Ad aprile, mentre ero a Kabul, ho pranzato con Anja Niedringhaus pochi giorni prima dell’attentato in cui ha perso la vita. Anja ha coperto i maggiori conflitti degli ultimi vent’anni. Quando ci siamo incontrate eravamo tanto contente, perché non ci sono molte donne che abbracciano questa professione e la comprensione che ci accomuna è speciale. Certo, ci sono delle professioniste esperte, come Paula Bronstein, Andrea Bruce, Carolyn Cole, Nicole Tung, Véronique de Viguerie, ma siamo pur sempre poche. Io amo il mio lavoro, e in un momento storico in cui imperversano le guerre e le emergenze umanitarie non si contano, lo ritengo fondamentale per una corretta comprensione degli avvenimenti. Quando i giornali pubblicano fotografie che non sono opera di professionisti ma di testimoni occasionali senza un nome e senza un curriculum, non possono sapere se ciò che è ritratto corrisponde al vero o se è piuttosto la rappresentazione manipolata degli eventi magari da parte di un combattente munito di telefonino».

Un mestiere durissimo declinato al femminile. L’insopprimibile vocazione di Addario inizia con il gesto innocente di un genitore. Il papà, un eccentrico parrucchiere del Connecticut indifferente ai giornali e con la passione dei viaggi, regala alla sua bambina una Nikon. Qualche anno dopo, nel 2009, lei vincerà il premio Pulitzer. Quella volta Lynsey Addario, 40 anni compiuti l’anno scorso, convince la giuria con un servizio realizzato tra i talebani in Waziristan pubblicato sul New York Times insieme ai lavori di altri colleghi autorevoli. Ma non era la prima volta che danzava con la morte. Né sarebbe stata l’ultima. «Quando, nel ’96, ho iniziato a fotografare, dopo essermi laureata in Relazioni internazionali, non pensavo di andare al fronte. Mi interessavano la politica, le problematiche umanitarie, le nuove tendenze sociali, ma non ritenevo di avere il coraggio per affrontare le dinamiche dei conflitti. Dopo l’11 settembre tutto è cambiato e da allora tutto il mio lavoro, in modo diretto o digressivo, riguarda la guerra». Quando l’Occidente inizia a trastullarsi con le macchine fotografiche digitali, i talebani infuriano a Kabul, dichiarano l’Emirato Islamico dell’Afghanistan e censurano la fotografia. Entro il 2001 ottengono il controllo della maggior parte del Paese, proibiscono l’inverosimile, dall’uso degli aquiloni al possesso dei piccioni, e cancellano le donne dal panorama nazionale.
Un passo indietro secolare. Ma quasi un secolo di storia ha anche l’attrazione delle professioniste dell’obiettivo per il fronte. A dispetto di chi considera la guerra un’occupazione al maschile, Marte e Venere, ci ricorda il mito, si attraggono dall’inizio dei tempi. Tra le prime a manifestare uno slancio sincero verso i conflitti è un’ebrea polacca di origini borghesi di eccezionale coraggio e bellezza. Gerta Pohorylle aveva 26 anni quando, animata da fervore antifascista, si reca in Spagna durante la Guerra civile. Qui giunge dopo l’esperienza del carcere in Germania per la sua adesione al Partito comunista e dopo essersi rifugiata a Parigi dove aveva ammaliato l’ungherese Endre Friedmann che diventerà la più grande leggenda del fotogiornalismo. I due scelgono una nuova identità. Lei rafforza l’assonanza con la divina Garbo ed entra nella Storia come Gerda Taro. Poi consiglia all’amico uno pseudonimo vezzoso, facile da ricordare: Hollywood imperversa, così nasce Robert Capa, fantomatico reporter americano che porta il nome del seducente Taylor, attore del momento, e il cognome che evoca il regista di Accadde una notte, Frank Capra, ma senza quella fastidiosa consonante che intralcia la pronuncia soprattutto in francese. Diventano un binomio inseparabile, nella vita e sulla carta stampata, osservatori di un conflitto che è il preludio di una tragedia più grande. La leggenda vuole che l’intrepida Gerda incitasse addirittura i Republicanos all’attacco. A ogni modo, nel 1937 è vittima di un incidente stradale in seguito a un attacco aereo e il suo compagno, che la seguirà nel suo destino saltando su una mina nel 1954 in Indocina, nel 1938 pubblica Death in the Making, una raccolta delle fotografie di entrambi.

Il Vietnam visto dalle donne. L’eredità di Gerda era già nelle mani di un’altra avvenente sacerdotessa dell’obiettivo, l’americana Margaret Bourke-White che il 23 novembre del 1936 firma la prima copertina del settimanale Life, chimera di ogni fotogiornalista, con uno scatto della diga di Fort Peck nel Montana. Da questo momento Bourke-White è l’inviato del prestigioso giornale per il quale documenta la Grande depressione nel suo Paese, l’invasione tedesca della Cecoslovacchia nel 1938, è autrice del primo ritratto non ufficiale di Stalin autorizzato a circolare oltre i confini dell’Urss, ed è il solo fotografo straniero a Mosca durante l’invasione nazista. Embedded ante litteram nell’esercito americano, assiste agli assedi della Linea Gotica sull’Appennino Emiliano e registra l’orrore di Buchenwald il giorno successivo alla liberazione dei prigionieri. Più tardi sarà testimone della Guerra di Corea.
«Vale la pena di ricordare anche il lavoro magnifico di Catherine Leroy e Dickey Chapelle durante la Guerra nel Vietnam», ci confida James Hill, fotografo di fama internazionale, dal 1995 a contratto con il New York Times, premio Pulitzer nel 2002. «Dickey ha coperto la maggior parte dei conflitti a partire dalla Seconda guerra mondiale. Ho tratto grandi insegnamenti dalle mie colleghe. Per esempio, mi ha molto colpito il reportage realizzato da Heidi Bradner nel 2005 che ha come soggetto i ragazzi soldato in Cecenia. Si ha davvero l’impressione che questi poveri soldati russi, alla vista di una ragazzona di un metro e ottanta dell’Alaska si siano fidati di lei. È importante trovare la chiave d’accesso alle persone che si incontrano, soprattutto quelle in evidente difficoltà. E in questo, di solito, le donne sono molto brave. Ci sono delle situazioni, poi, in cui solo loro possono intrufolarsi. Per quanto mi riguarda, però, non faccio distinzione di genere e credo che le fotografe donne siano diverse tra loro quanto lo sono gli uomini. E, a prescindere da tutto, penso che le foto che Lynsey Addario ha scattato alla Korengal Valley sono a dir poco eccezionali».

La vita privata delle fotoreporter. Insomma, le donne vogliono partecipare alla guerra, come protagoniste o spettatrici dedite alla divulgazione, tanto che gli Stati Uniti, a gennaio dello scorso anno, hanno dovuto sospendere il divieto per le soldatesse di combattere al fronte, facilitando indirettamente la vita delle reporter di guerra che fino ad allora usufruivano di sistemazioni occasionali. Shooting, il termine inglese che designa l’atto di sparare, indica anche l’atto del professionista che armato di macchina fotografica prende la mira e preme il grilletto. Ma chi si aspettasse di trovare tra queste fotoreporter delle virago prive di fascino, rimarrebbe alquanto sorpreso. Prendiamo Addario, una bella ragazza dalla lunga chioma corvina: subito dopo aver messo a fuoco il suo obiettivo nella vita, fotografa la caduta dei talebani a Kandahar nel dicembre 2001, è rapita nel 2004 a Fallujah in Iraq, scampa a un incidente in Pakistan dieci giorni prima delle nozze, è nuovamente rapita in Libia nel marzo del 2011, l’annus horribilis del fotogiornalismo in cui in pochi mesi João Silva perde le gambe in Afghanistan mentre Tim Hetherington, neo vincitore del Sundance Festival, e Chris Hondros perdono la vita a Misurata. Per sei giorni, Lynsey e tre colleghi sono nelle mani dei soldati di Gheddafi. Tutti i malcapitati sono picchiati, minacciati di morte e umiliati. A lei, unica donna, spettano anche le molestie più intime di una dozzina di uomini. Lo shock è forte, ma il timore che la paura di ciò che ha vissuto si trasformi in fobia e inibisca il coraggio necessario per proseguire il suo lavoro le suggerisce il contrattacco: «Non credo che fotografare la guerra sia più pericoloso per una donna. In fondo gli uomini devono affrontare gli stessi pericoli. E poi i miei colleghi in Libia hanno ricevuto più botte in testa di me». Una dichiarazione che nasconde il timore che i direttori di testata preferiscano assegnare le storie da prima pagina agli esponenti del sesso forte. «Il mio è un mestiere selettivo», prosegue Addario, «è molto solitario, esige rigore, è emotivamente impegnativo e bisogna mettersi sulle spalle un equipaggiamento molto pesante: da vent’anni mi porto addosso venti chili ogni volta e ho grossi problemi alla schiena. Inoltre, per molto tempo non ho avuto una vita personale. Come si può convincere qualcuno a stare con te se all’improvviso parti per quattro mesi?». Poi in Turchia conosce Paul de Bendern, che sposa nel 2009, e che al momento del rapimento in Libia lancia appelli per la liberazione della moglie dall’ufficio della Reuters a New Delhi, che dirige. «Prima di iniziare la nostra relazione, io e mio marito eravamo già amici e lui mi ha sempre incoraggiato. Quando ci siamo sposati, sapeva esattamente a cosa andava incontro. È il miglior sostegno che potrei sperare di avere». Nel 2012, dieci mesi dopo il rapimento, come reazione alle credibili minacce di morte, nasce Lukas, e Lynsey sembra voler soffocare il demone seducente che la spinge verso la polvere da sparo. Eppure quando la chiamiamo è sul fronte turco-siriano: «Il mio bambino ha cambiato il modo in cui concepisco il mio lavoro. Adesso mi concentro soprattutto sugli effetti delle guerre. I rifugiati siriani scappati dal loro Paese per esempio sono più di due milioni. Per testimoniare le loro condizioni ho anche viaggiato in Giordania, Libano, Nord Iraq».

Vantaggi e svantaggi di una donna al fronte. «È strano», racconta l’americana Stephanie Sinclair a Sette, «ma quando si lavora nei territori ad alto rischio, ci si sente al sicuro fino a quando non si è travolti dal pericolo». Nata nel 1973, sposata, laurea in giornalismo, tanti premi tra cui pure lei il Pulitzer, aveva 29 anni quando per la prima volta si reca in Iraq. «Proprio in Iraq ho sperimentato uno dei momenti peggiori della mia carriera. Mi trovavo nei pressi di Falluja, nel 2004, la mia auto seguiva una vettura della Mezzaluna rossa internazionale. Intorno c’erano solo campi, nessuno in vista e tutto era calmo. A un certo punto un convoglio americano compare all’orizzonte e incrocia la nostra macchina. Dai campi che sembravano placidi, emerge un esercito di ribelli. Ci siamo trovati nel mezzo di una sparatoria furiosa. Siamo saltati giù dalle macchine e abbiamo trovato rifugio tra i campi incolti. A dire la verità, negli ultimi anni preferisco studiare la guerra che si svolge un po’ più lontano dalla linea del fronte. Non credo alla violenza e temo che la sua rappresentazione diretta nutra altra violenza e si trasformi in una forma di propaganda involontaria». Ora si concentra su progetti di rilevanza straordinaria, tra cui uno a cui lavora da più di dieci anni che ha provocato una risonanza internazionale: il fenomeno delle spose bambine in Afghanistan, Nepal, India, Yemen, Etiopia costrette a unirsi a uomini anziani o che non conoscono. La prossima tappa è il Guatemala. «Essere una donna mi ha molto aiutato. Nei Paesi musulmani per esempio, mi ha persino garantito un accesso privilegiato».
A detta di tutte, il vero vantaggio di cui godono le fotografe che operano nei territori devastati dalla guerra o governati da regole ancestrali, è intrinseco al genere: un vero e proprio varco verso situazioni che il pudore o la tradizione preclude agli uomini. Le donne e i bambini sono spesso al centro del loro universo, volti indistinti destinati a confluire negli anonimi “danni collaterali”, frutto delle inevitabili distrazioni nel caos di una guerra, persino quando è chirurgica. Addario per esempio, che è stata uno dei sei fotografi ammessi regolarmente in Darfur per sei anni durante il feroce conflitto e ha documentato la carestia in Somalia, dal 2006 è stata varie volte anche nel Congo orientale per mostrare le atrocità degli scontri e dare voce alle donne vittime degli stupri, considerati dai combattenti di entrambe le fazioni un’efficace arma per marcare il territorio e distruggere i legami familiari: «Molte di loro volevano parlare apertamente di ciò che avevano subito. Ho pianto molto nell’ascoltare le loro testimonianze. Ciò che mi colpì fu la loro maturità e il loro amore verso i figli, indipendentemente da come erano stati concepiti».

Il pericolo e la paura. Più spesso il genere invece complica le cose. Ottenere il permesso di partecipare a missioni particolarmente ardue esige da parte delle donne grande caparbietà: «Nell’autunno del 2007», continua Addario, «io ed Elizabeth Rubin siamo state per due mesi in una delle zone più pericolose, la Korengal Valley in Afghanistan, embedded con l’esercito americano per il New York Times, in un plotone di soli uomini. Avevano fatto di tutto per farci recedere. Vivevamo nei bunker, ore di cammino al giorno a più di 2.000 metri di altezza, con zaini pesanti e sotto la minaccia costante degli attacchi degli insorti. Elizabeth era anche incinta. Tutti si aspettavano che fossimo noi a capitolare. Invece il primo, con nostra intima soddisfazione, è stato un uomo: un soldato si accascia e si mette a piangere». L’epilogo però è amaro. Il gruppo si trova nel mezzo di una sparatoria che dura 15 minuti: «I feriti vennero caricati su un elicottero e fotografai i soldati mentre portavano in salvo i loro compagni. Il sergente Rougle morì. Il giorno prima ci aveva confidato che aveva chiesto alla sua fidanzata di sposarlo».
Non hai paura? Chiediamo invece alla bionda francese Véronique de Viguerie, 36 anni, laurea in legge e coraggio da vendere. Molte riviste, tra cui Paris Match, le hanno dedicato grandi spazi. In particolare, nel 2008 quando ritrae i talebani che avevano da poco ucciso dieci soldati francesi e che si erano impossessati dei loro averi indossandoli; quando fotografa i pirati somali dediti al saccheggio delle navi; quando produce un intero reportage sui pirati nigeriani armati fino ai denti in lotta contro le multinazionali del petrolio. «Questi uomini non si aspettano di vedere una donna. Ne rimangono stupiti, forse divertiti, direi quasi intimoriti. Sono una straniera, una donna. È come se per loro facessi parte di un terzo sesso. In Nigeria una volta ho avuto paura. Uno dei pirati si era innamorato della giornalista che era con me e, non corrisposto, era diventato molesto. Però, forse il momento più drammatico l’ho vissuto lo scorso anno in Mali. Ero incinta di sette mesi, aspettavo la mia seconda figlia. Ho trascorso tre settimane con l’Mnla, i Tuareg indipendentisti del Mali. Il loro campo era in mezzo al deserto, ci nutrivamo di carne di capra che cominciava ad andare a male e latte di cammella. Siamo caduti in un’imboscata di una quarantina d’uomini. Faccia a terra. Mani sulla testa. Giorni indimenticabili, lunghissimi, che fortunatamente si sono conclusi bene».

Lee Miller e la vasca di Hitler. Stephanie, Véronique, Lynsey sono donne minute. Addario è alta un metro e mezzo e ogni volta che deve saltare sull’altra sponda di un fiume o di un rigagnolo al massimo può guadarlo. Chi invece vantava un fisico statuario era Lee Miller, la collega di Bourke-White. Americana, bella da paura, scampata a un investimento grazie all’imprenditore Condé Nast in persona che la introduce nel mondo della moda, si trasferisce poi Parigi dove seduce Man Ray, di cui diventa allieva, compagna, musa. Durante la Seconda guerra mondiale, come fotoreporter, è corrispondente dall’Europa per Vogue. Dopo lo sbarco in Normandia segue l’avanzata degli Alleati attraverso la Francia e la Germania, è testimone della liberazione di Parigi e dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Con l’esercito americano arriva a Monaco, entra nell’appartamento di Adolf Hitler in compagnia del collega David Scherman soggiogato come tanti dalla sua avvenenza. In un guizzo surrealista degno del suo ex compagno dei tempi di Parigi gli chiede di essere fotografata nuda nella vasca del Führer, con tanto di ritratto dell’ex proprietario in procinto di togliersi la vita. A terra i suoi scarponi sono ancora imbrattati con il fango di Dachau sporco due volte. Lei morirà nel 1977, alcolizzata, a causa di quella che oggi è chiamata sindrome post-traumatica da guerra. Ma lì, in quella vasca, Venere batte Marte 10 a 0.