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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

«CHE INGENUI GLI OTTOMANI» IL 1914 VISTO DA UN BANCHIERE


In questi giorni d’agosto di cento anni fa (il 12 del mese, per l’esattezza), due incrociatori tedeschi, il Goeben e il Breslau, gettarono l’ancora nel Bosforo. La Germania era in guerra dal 2 agosto contro le potenze alleate (Francia, Gran Bretagna, Russia) e non era corretto che l’Impero ottomano, dopo essersi proclamato neutrale, accogliesse nelle sue acque una nave da guerra straniera. Fu annunciato che gli incrociatori sarebbero stati venduti alla Turchia e avrebbero cambiato nome, ma i residenti stranieri di Costantinopoli non tardarono ad accorgersi che gli ufficiali tedeschi, con un fez al posto del loro vecchio berretto, erano rimasti a bordo.
Fu evidente che la Germania voleva provocare una reazione russa e coinvolgere la Turchia nel conflitto. Avrebbe costretto l’Impero zarista a difendersi sul Mar Nero e avrebbe alleggerito in tal modo la pressione dell’esercito russo sulla Prussia orientale e sulla Galizia austriaca. Ma la Russia, anziché reagire immediatamente, preferì lasciare ai tedeschi l’iniziativa. Accadde nella notte del 28 ottobre, quando i due incrociatori lasciarono il Bosforo, sfilarono silenziosamente di fronte alle ville di Therapia (fra cui quella che un pascià aveva regalato al re d’Italia per il suo matrimonio), uscirono nel Mar Nero e apparvero all’alba di fronte alla scalinata di Odessa per bombardare la città e fare altrettanto, nelle ore seguenti, contro Feodosia, Sebastopoli e il porto georgiano di Batum.
Turchi e tedeschi sostennero che gli incrociatori avevano reagito a una provocazione della flotta russa. Ma quello era esattamente l’obiettivo che il governo tedesco stava perseguendo da qualche mese. La guerra fu dichiarata dalla Russia il 2 novembre, dalla Francia e dalla Gran Bretagna il 5. L’Italia, per il momento, stette a guardare. Sarebbe entrata in guerra contro l’Austria-Ungheria il 24 maggio del 1915, contro la Turchia il 21 agosto e contro la Germania il 27 agosto dell’anno successivo.
Vi fu quindi un lungo momento, nel 1914, in cui Costantinopoli ospitava gli ambasciatori, gli addetti militari, i banchieri e gli uomini d’affari di gran parte dei Paesi che si sarebbero combattuti in campi opposti sino alla fine del 1918: tutti insieme sul grande balcone del Bosforo per cercare di capire quali fossero le intenzioni e le strategie del Gran Turco. Fra questi vi era un italiano che fu contemporaneamente banchiere, ingegnere minerario e, in alcuni momenti della sua vita, diplomatico. Si chiamava Bernardino Nogara ed era arrivato a Costantinopoli qualche anno prima per dirigere la Commerciale d’Oriente, una società creata dalla Banca commerciale italiana con Giuseppe Volpi per la rete d’affari che il finanziere veneziano stava tessendo nei Balcani e nel Mediterraneo orientale, fra cui alcune miniere in Bulgaria e sulle coste del Mar Nero.
Quando l’Italia invase la Libia, Volpi si offrì a Giovanni Giolitti come mediatore e Nogara divenne rapidamente l’onesto sensale dei negoziati informali che si conclusero qualche mese dopo con un trattato di pace firmato a Ouchy, vicino a Losanna, nel 1912. Tornato a Costantinopoli, Nogara continuò a dirigere la Commerciale d’Oriente, ma fu anche chiamato a rappresentare l’Italia nell’Amministrazione del debito pubblico ottomano: un organismo internazionale che aveva in Turchia poteri persino maggiori di quelli esercitati oggi dal Fondo monetario internazionale nei Paesi debitori. L’Amministrazione era un grande ministero delle Finanze che disponeva di 720 succursali per la raccolta dei tributi, impiegava 5.500 persone e controllava il 30 per cento degli introiti del bilancio imperiale.
Insieme ad altri cinque rappresentanti di Paesi creditori, il mediatore di Ouchy era diventato, una sorta di plenipotenziario della finanza internazionale, il diplomatico banchiere a cui nessuna porta era chiusa. Aveva uno status comparabile a quello del capo di una missione diplomatica, conosceva e frequentava i dirigenti del Comitato per l’unione e il progresso (il movimento dei «giovani turchi»), era in grado di decifrare i silenzi e le ambiguità della politica ottomana. Sapeva quindi che la Germania si era progressivamente inserita nella vita e nell’amministrazione del Paese con tutto il peso del suo apparato industriale, delle sue banche, dei suoi progetti infrastrutturali, delle sue missioni militari e archeologiche. E sapeva che la Turchia si era progressivamente infeudata al Reich tedesco anche per liberarsi dai troppi laccioli che le potenze occidentali e la Russia avevano stretto intorno al suo collo.
Nogara non dovette essere sorpreso quando l’Impero declinante approfittò delle turbolenze politiche dell’estate del 1914 per sopprimere le capitolazioni, vale a dire quelle garanzie civili e giudiziarie che le comunità occidentali avevano conquistato con il passare del tempo.
Nogara non mandava rapporti al ministero degli Esteri, ma quando la moglie era in Italia con i figli per le vacanze d’estate, le scriveva quasi ogni giorno. L’assenza del 1914 fu particolarmente lunga, la famiglia non poté tornare a Costantinopoli e Nogara, rimasto solo fino al definitivo ritorno in patria dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, scrisse almeno ottanta lettere, che appaiono ora in una elegante edizione del Centro Di a cura del nipote, Bernardino Osio, con molte fotografie dell’epoca e una prefazione di Marta Petricioli, storica dell’Università di Firenze.
Le lettere formano un diario in cui l’autore registra i piccoli e grandi avvenimenti della giornata, il turbinio di voci e chiacchiere che agitano continuamente le acque del Bosforo, le manovre con cui ciascuno dei due campi cerca di procurarsi amici e alleati. Ma sono anche un documento personale e riflettono i sentimenti di un osservatore che crede, pur tra molte esitazioni, nella necessità di un intervento italiano a fianco degli Alleati contro gli Imperi centrali. Alla moglie, il 7 marzo 1915, Nogara scrive: «Qui i Turchi hanno ancora l’ingenuità di credere che noi si partirà in guerra contro la Francia e l’Inghilterra».
La carriera finanziaria e diplomatica di Bernardino Nogara non finì nel 1915. Tornò a Costantinopoli dopo la fine della guerra e partecipò a tutte le grandi conferenze internazionali sulla Turchia negli anni seguenti. Divenne uno dei maggiori esperti internazionali in materia di riparazioni tedesche e debiti di guerra e fu vicepresidente della Banca commerciale sino a quando Pio XI lo volle a Roma per gestire il nuovo patrimonio finanziario della Santa Sede. Erano i 750 milioni in contanti e il miliardo in consolidato 5 per cento che il governo italiano aveva versato alla Chiesa romana per chiudere con i Patti lateranensi il contenzioso aperto nel 1870.
Dopo avere amministrato il debito dell’Impero ottomano, Nogara fu chiamato quindi ad amministrare i beni di un altro Impero: dalla «seconda Roma» (come fu chiamata un tempo Costantinopoli) era finalmente approdato alla «prima».