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 2014  agosto 08 Venerdì calendario

BILLY COSTACURTA


Mica vero che gli ex calciatori siano tutti orfanelli dei tempi in cui segnavano gol (o impedivano si segnassero), per la felicità dei tifosi. Che fatichino a sradicare la lacrima parlando di epiche imprese sul campo e guardino al presente da professionisti della nostalgia.
Alessandro, «Billy» Costacurta, 48 anni, sposato con la modella-attrice Martina Colombari e papà di Achille (9), una vita con la maglia del Milan e della Nazionale, dopo l’ultima partita s’è costruito (o perfezionato) non una ma almeno sei vite: modello/testimonial, collezionista d’arte contemporanea, socio in un ristorante alla moda, allenatore, commentatore per Sky e marito/papà, che nell’elenco lascia all’ultimo posto soltanto per raccogliere lo zucchero. Chi ha detto che immergersi nelle occupazioni familiari, tipo portare il bimbo a scuola e seguirlo nei compiti, possa produrre qualche affanno?
Al contrario sono cose che fanno respirare più profondo, come mettersi in casa qualche opera di Mimmo Paladino, Sandro Chia, Francesco Clemente e David LaChapelle (la Pietà con Courtney Love-Madonna e Gesù morto-Kurt Cobain).
O come guardare con interesse alla politica (versante Renzi) e all’ecologia («Fuori da scuola mi sono messo a litigare con un irresponsabile che teneva il motore acceso in mezzo ai bambini»).
Al Milan a 13 anni
Ma che infanzia-adolescenza può essere stata quella d’un ragazzo già tesserato a 13 anni per il Milan? «Divisa fra scuola e oratorio di Gallarate dove ho tirato i primi calci. Secondo di tre fratelli, il primo ha un ristorante sul Lago Maggiore, l’ultimo fa l’allenatore, una mamma appassionata di sartoria che ci faceva i vestiti su misura, un papà che commerciava in bilance e che purtroppo ho perso presto: non m’ha neanche visto spiccare il salto. A un certo punto siamo andati ad abitare in una grande casa assieme a tanti zii e cugini: anche questo m’ha fatto capire il valore della famiglia».
Lombardo pragmatico Alessandro, determinato, molto selettivo, vagamente sussiegoso. Che cosa rappresentano 15 anni di vita comune con una solare e ambiziosa romagnola-riccionese? «Un legame profondo e la costante ricerca del giusto punto d’incontro: può essere pericoloso stare troppo insieme o troppo poco. All’inizio è stata tutta passione anche se vivevamo in due mondi separati. Lei aperta, io chiuso. A lei piacevano i fotografi, io scappavo. Poi l’arrivo di Achille ha cambiato le cose, siamo diventati una famiglia».
E pazienza se questo comporta qualche sacrificio alle rispettive carriere. Con il bimbo piccolo la signora ha detto no a diversi buoni contratti e lui, più recentemente, ha rifiutato qualche offerta tra cui, assai rimpianta, quella d’allenare una squadra universitaria californiana. «Avrebbe voluto dire trasferirci tutti lì ma era un ottimo momento professionale per mia moglie e ho preferito lasciar perdere. Comunque mai dire mai. Achille fa la scuola inglese e andrà sicuramente in un college americano. Io adoro San Diego: l’aria, i ritmi, le case sul mare che costano poco: prima o poi perché no?».
«Mi manca lo spogliatoio»
Dunque presente e futuro più che passato. Alessandro non è il tipo che a tarda notte si riguarda con tenerezza in qualche finale-vintage di Champions League. Primo perché pur dormendo poco («cinque ore al massimo»), s’addormenta presto, come un sasso. Secondo perché a mancargli non sono tanto il pallone e i trionfi davanti alla folla osannante, ma lo spogliatoio, inteso come ambiente osmotico: uno per tutti, tutti per uno. «È una strana comunità dove condividi tempo, pensieri, obbiettivi, confidenze, tensioni. La magia, al di là di qualche sprazzo anarcoide, viene dalla solidarietà reciproca. Il limite sta nel pensare che quello sia l’unico mondo possibile e chiudersi al suo interno: così non si matura e non si migliora. Anch’io ero poco incline a incontrare gente di altri ambienti e in questo Martina mi ha aiutato molto a confrontarmi con nuovi mondi e anche a scoprire nuove realtà, soprattutto dopo qualche viaggio in Africa. Ed è facile capire il motivo». Ma lo spogliatoio crea le basi per autentiche amicizie o quando archivi la maglia in guardaroba svanisce anche l’incantesimo? «Dipende da chi ti trovi vicino. Al Milan e in Nazionale ho conosciuto ragazzi straordinari con cui ho stretto una vera amicizia. Su Paolo Maldini, Massimo Ambrosini, Ciro Ferrara tanto per fare tre nomi, so di potere contare a occhi chiusi per sempre e viceversa».
Le mani addosso a Seedorf
Ma anche in una tale solida e solidale fortezza capita che ci si prenda male con qualche compagno. E possono essere dolori. «Mi è capitato di litigare di brutto, nel senso di metterci le mani addosso, soltanto con uno: Clarence Seedorf. È successo in un allenamento, sono intervenuto un po’ duramente come può capitare a un difensore ed è scattata la scintilla. Forse al di là del fallo fra di noi c’era qualcosa che non funzionava...Comunque un pomeriggio ci siamo seduti su una panchina e abbiamo parlato a lungo. Esagererei dicendo che sia nata un’amicizia, ma almeno ci siamo chiariti».
Il ringhio di Materazzi
Figuriamoci che cosa può succedere dunque con i giocatori delle altre squadre, i «nemici» a cui contendere le vittorie. «In campo botte e insulti si prendono e restituiscono, difficile che ci siano strascichi fuori. Però le antipatie esistono, eccome. Io per esempio non ho mai potuto soffrire Marco Materazzi e il suo modo di comportarsi in campo: per me l’esempio da non seguire. Lui mi provocava dandomi del fighetto e via dicendo, insomma ci ringhiavamo duramente. Poi durante una tournée della Nazionale ci siamo avvicinati un po’ e in qualche modo ricreduti».
Comunque sia, cose da mammolette in confronto agli insulti sanguinosi che si scambiano certi politici italiani. Forse perché per i calciatori vittorie e sconfitte passano in secondo piano, soprattutto oggi, rispetto a ingaggi, tatuaggi, creste da Moicano? «No, è soltanto questione individuale a prescindere dall’eccentricità. Io da giocatore non mi sono mai esaltato nell’alzare le coppe e non mi sono depresso nelle sconfitte. Credo che la professionalità debba prevalere sul temperamento. Tanto più nel ruolo di allenatore, che dovrebbe presupporre maggiore equilibrio. Un allenatore, pur molto vincente, che si comporta da tifoso come Antonio Conte non lo capisco: dovrebbe seguire un corso di comunicazione».