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 2014  agosto 07 Giovedì calendario

“MISCHIE CONTRO IL RAZZISMO VENGANO A IMPARARE DA NOI”

[Intervista a Martin Castrogiovanni] –
Io li farei giocare un po’ a rugby. Tutti quanti». Tavecchio e Balotelli. Malagò e Lotito. Andrea Agnelli, Albertini. Tifosi, giornalisti. «Qualche mischia, una bella serie di placcaggi. Molto fango, silenzio assoluto. Poi il terzo tempo. E allora sì che cominciamo a parlare di sport. Di educazione e divertimento. Integrazione». Martin Castrogiovanni, barbuto pilone della Nazionale ovale, sottoscrive gli inviti.
Perché il rugby è un’altra cosa?
«Forse perché in campo hai bisogno di tutti, senza pregiudizi. Come nella vita di ogni giorno. I piccoletti e i giganti goffi. Quelli ossuti, i ciccioni. Giovani, vecchi. C’è da azzuffarsi e servono rinforzi, ognuno ha un suo ruolo e figuriamoci se hai tempo di guardare al colore della pelle. Poi le regole di una società civile: sono quelle, sono chiare, tutti le rispettano e chi non ci sta viene emarginato».
A vent’anni da Paranà a Calvisano. Poi Leicester, ora Tolone. Quattro campionati inglesi vinti, uno in Francia, un altro in Italia. Una Heineken Cup. Più di cento maglie azzurre, tre mondiali. E quante banane?
«Nessun episodio, mai. Mi sembra incredibile, parlare di certi argomenti nel 2014. Razzismo? Ma vi siete accorti in che società stiamo vivendo? Io ho sangue italiano, tedesco, indio. Mia sorella Ines ha avuto due gemelli da un mio compagno di squadra di origine tongana».
E allora perché il calcio?
«Non lo so. Però so che l’esempio è importante. E l’esempio lo danno soprattutto i giocatori. Poi i dirigenti, i giornalisti. È per questo che li invito sul campo. Nigel Owens, forse il nostro arbitro più famoso, ha fatto coming out. E un fuoriclasse come Gareth Thomas. Nessuno ha mai messo in relazione la loro vita privata con lo sport».
Però Tavecchio racconta che Optì Pobà è un mangiabanane.
«Ma se votano per Tavecchio, allora vuol dire che quelli del calcio non hanno capito nulla. Se vince lui, perdiamo tutti. Ho detto: l’esempio. E la buona volontà».
In che senso?
«In Inghilterra avevano il problema hooligans, ma hanno deciso di risolverlo. Rispettando le leggi. Impegnandosi in prima persona. Io se allo stadio vedo uno che lancia una banana o comincia a fare il verso della scimmia, lo prendo per un orecchio e lo porto fuori».
Bisognerebbe dirlo alle curve italiane.
«La stragrande maggioranza del pubblico è composta da persone per bene. Che devono assumersi delle responsabilità — personalmente — se altri violano le norme. Perché siamo tutti una sola squadra, tessere di un mosaico».
E Mario Balotelli?
«È un ragazzo di talento. Ma un ragazzo. Ai Mondiali sono sicuro che i compagni più vecchi hanno cercato di aiutarlo, però non è facile. Perché questa è una società drogata dai soldi e dalla televisione, costruiscono delle star a tutti i costi e solo i più forti riescono a sopportare la pressione. Per quanto il rugby resterà un’isola felice?».
Sono quasi vent’anni che la palla ovale è passata al professionismo.
«In Inghilterra in inverno i giovani campioni del Leicester si svegliavano alle sei per spalare il terreno dalla neve e permettere di allenarci. Una cultura sportiva diversa, che comincia dalla scuola. Ma stanno arrivando segnali negativi anche da noi. Troppi giovani pensano prima al successo, al denaro, agli status-symbol. Dimenticando il vero premio rappresentato dal piacere (e dal sacrificio) di fare sport: educazione, divertimento».
Ci vorrebbero una bella mischia, un paio di placcaggi.
«E zitti. Tutti uguali. A giocare, secondo le regole».
Massimo Calandri, la Repubblica 7/8/2014