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 2014  agosto 07 Giovedì calendario

GIURATO VERDONE

[Intervista a Carlo Verdone] –
ROMA
Carlo Verdone apre la porta di casa - un attico che guarda Trastevere - in jeans e maglietta blu. È magro, «macché in forma, ho l’ipoglicemia, devo girare con le bustine di zucchero sennò svengo» e reduce da una mattinata degna di un suo film: «M’insaponavo sotto la doccia ed è andata via l’acqua solo in due appartamenti, e uno era il mio. Mi sono risciacquato dal custode». A tener su l’umore, la prospettiva di partire per la Mostra di Venezia, giurato del concorso, e ricevere il prestigioso premio Bresson.
Per la prima volta il riconoscimento va alla commedia.
«Mi sento piccolo di fronte a questo premio vinto da grandi autori. Ho pensato: me lo merito? È incredibile, con mio fratello Luca stiamo mettendo a posto i volumi di papà nella casa di campagna, sono 18 mila, abbiamo trovato molti libri su Bresson e articoli di mio padre. Ringrazierò umilmente, dirò che spero di concludere la carriera meritandolo ancora di più. Lo dedicherò a mio padre, è stato il migliore dei Verdone, tutti gli dobbiamo qualcosa. Ci ha stimolato a studiare. Mi regalò la tessera del Filmstudio, “se non hai il retroterra non puoi raccontare il presente”. Sono riuscito a diplomarmi al Centro Sperimentale, ho avuto qualche difficoltà ma poi è uscito un talento che non sapevo di avere, lo sapeva solo mia madre, mi ha sempre detto “tu hai le qualità per lo spettacolo”».
Le hanno già spiegato la motivazione?
«Lo diranno loro. Penso che sia stato apprezzato il rigore, la disciplina, il continuo stupirsi e raccontare con umanità le mie storie. In alcune ci sono riuscito, in altre potevo farlo meglio. Ho cercato sempre di sterzare, di non fare lo stesso film, di affrontare le fragilità, la società, il lavoro, la famiglia. Sono fiero di Maledetto il giorno che ti ho incontrato, Perdiamoci di vista , Al lupo al lupo , Io loro e Lara. Penso alla follia di Gallo Cedrone , il mitomane che vuol essere il figlio segreto di Elvis, cambia mille lavori, finisce a fare il politico che vuole asfaltare il Tevere per togliere il traffico. Penso alla solitudine di Viaggi di nozze. Lietta Tornabuoni mi disse “bello, ma tutti i telefonini che suonano al ristorante è esagerato”, oggi c’è gente che mangia con l’auricolare e parla da sola per strada. Penso al vuoto pneumatico tra me e la Gerini, 13 frasi in tutto, poi solo musica in un’atmosfera di noia mortale».
Lei è stato giurato a Venezia nel 1984.
Che esperienza fu?
«Una grande giuria. David Lynch, Uma Thurman, Mario Vargas Llosa, Olivier Assayas, Margherita Buy. Lynch aveva le idee chiare, non lo smuovevi. Ma chi aveva le redini in pugno era Vargas Llosa. Io e Margherita perorammo la causa di Lamerica di Amelio. Un film ancora attuale, non arrivano con le navi ma con i barconi che affondano, aveva catturato la grande questione dell’Occidente. Avevamo quasi convinto gli altri, quando prende la parola Llosa: “C’è un compiacimento del regista nel presentare questi personaggi come insetti impazziti, un esercizio di stile neorealista esagerato”. Una filippica di un’ora che ci distrusse tutti. Buy mi disse: “Questo parla troppo bene, non ce la faremo mai a controbatterlo”. Io tentai, lui mi fece segno con la mano: “No, no, andiamo oltre”. Tra i premiati ci fu anche Assassini nati , una violenza inaudita, diseducativo. Avvertii che poteva essere imitato, Lynch disse che non avevo capito nulla. Ottenemmo un premio per Il toro di Mazzacurati, sono contento, anche perché Carlo non é più tra noi».
Con chi andava più d’accordo?
«Con Lynch. Amava la musica rock, parlavamo dei grandi gruppi, Greatful Dead, Maddy Waters, Pink Floyd... Uma era molto simpatica. Ma perse la testa durante la proiezione di Il branco di Marco Risi. Di mattina, in una saletta dell’Excelsior, di fronte alla storia di uno stupro si mette a urlare come un’ossessa, “basta! basta!”. Il proiezionista accende la luce e lei grida, “non posso vedere questa violenza assoluta contro le donne”, prende la borsa, esce e la rivediamo solo il pomeriggio ancora con gli occhi gonfi».
Ricevevate pressioni?
«Un inferno. Chiamavano, “com’è andata?”, “non si mette bene”, “come? ma siete in due”... La mattina io e Margherita ci dicevamo “a te quanti t’hanno chiamato, quattro? A me otto”. Cecchi Gori e gli altri produttori telefonavano con mille espedienti, incazzati, dicevano che non difendevamo abbastanza gli italiani. Ma eravamo in due, c’erano gli altri sette. E non difendevamo Amelio e Mazzacurati perché erano italiani ma perché avevano fatto buoni film».
E stavolta?
«Stacco il telefono. Sono il solo italiano in una giuria di cineasti tosti e rigorosi. Con Vargas Llosa ci potevi discutere - ti partivano cinque ore - questi sono di poche parole ma decisi. Sarà arduo, ma se c’è un italiano meritevole mi farò in quattro».
A Venezia lei ha iniziato ad andare da ragazzino.
«Mio padre è stato dirigente per anni, andavamo al Lido tre mesi, ho ricordi meravigliosi, negli anni Cinquanta. L’arenile era in stile Morte a Venezia , le tende, il vento, il silenzio. I paparazzi erano educati. Un giorno si parlava solo di Vittorio De Sica che aveva perso 150 milioni al Casinò, tutti si chiedevano “quanti film gratis dovrà fare?”. Una mattina trovai il salone dell’Excelsior transennato. Nella notte Carmelo Bene, ubriaco, aveva dato in escandescenze, mollato vestiti, scarpe e mutande e vomitato. E una quindicina di povere donne, sedute per terra, pulivano con l’acido muriatico».
Il film che le restò più impresso?
« Arancia meccanica. Dovevo partire per Londra la mattina dopo, ma avevo sentito che il film era vietato, se ne parlava. Riuscii a entrare solo perché ero il figlio di Mario Verdone. Lo vidi in piedi, rimasi a bocca aperta, ci pensai tutta la notte. Conclusi che Kubrick era uno dei più grandi del mondo».
Al Lido incontrò per la prima volta Sordi.
«Ero ragazzino, gli chiesi l’autografo. Mi prese subito in giro, “tu sei russo e a te non lo faccio”, e io “ma no, sono di Roma”, e lui “sei di Mosca? Sei russo?”, e mi dava schiaffetti in faccia. Poi firmò uno scarabocchio e tornai a casa deluso: “Mamma, diceva che sembro russo, ma come sono ‘sti russi?”, e mia madre “Carlo, sono come noi”. Alberto mi fece quasi piangere».
Poi tornò da lui per Incontri proibiti.
«Mi chiamarono alle undici di mattina: “Alle quattro devi stare qui, c’è bisogno di pubblico, di fotografie”. Intuii che il film aveva qualche debolezza. Mi fecero trovare l’aereo privato, arrivai a Venezia sfidando un temporale, stavo per fare una brutta fine. Mi cambio e piombo nella Sala grande quasi vuota. A un certo punto aprono le porte, “chiamate quelli che passano”, entrarono pure i ragazzini col secchiello. Feci un bel discorso e lui mi abbracciò come fossi suo figlio. “Sei stato carino con papà”, e io: “Sei sempre il numero uno”».
Arianna Finos, la Repubblica 7/8/2014