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 2014  agosto 07 Giovedì calendario

UN DECLINO LUNGO SETTE ANNI, IL NODO È LA PRODUTTIVITÀ


L’ANALISI
ROMA Un unico trimestre a segno positivo negli ultimi 12, in realtà un lunghissimo e pressoché ininterrotto percorso di declino che dura da 7 anni. Anzi, da 15. E’ questo il terribile fondale di medio periodo in cui inquadrare l’ennesimo deludente dato del Pil italiano nel secondo trimestre 2014. Vediamo di ricapitolare in sintesi che cosa significano, questi 7 anni di crisi: ricordando però che il problema italiano numero uno non è la finanza pubblica pur disastrosa, ma il calo della produttività. E a differenza di chi se la prende con la Germania e l’Europa del rigore è un problema che viene da prima della crisi e dell’euro: la produttività multifattoriale italiana ha ristagnato per 10 anni prima dell’euro, e poi ha cominciato a calare. Se la produttività scende dipende da molti fattori: rigidità dei mercati del lavoro, dei beni e soprattutto dei servizi pubblici, invecchiamento della popolazione, incertezza delle regole. Le mille pastoie italiane che tocca a noi cambiare, non all’Europa.
PIL E REDDITO
Negli anni 1996-2008, il PIL procapite degli italiani era cresciuto del 14,8%, quello tedesco del 20,1%, quello dell’euroarea a 18 del 24,3%. Già allora crescevamo meno degli altri. Negli anni 2008-2013 il PIL procapite italiano è sceso dell’11%, quello spagnolo dell’8,3% malgrado l’esplosione del sistema bancario iberico. L’Irlanda aveva perso a dicembre 2013 più di noi: l’11,6%. Ma dopo i nostri primi due trimestri 2014 a segno negativo, ci ha scavalcati in meglio. Persino la Grecia, che pure aveva perso nei 7 anni di crisi il 23,2%, sta recuperando PIl procapite negli ultimi trimestri meglio di noi. Nella crisi, il Pil procapite tedesco è salito del 4,4%, quello polacco del 18,9%. Il reddito disponibile degli italiani in termini reali procapite in 7 anni è sceso del 14%, siamo tornati indietro a livelli da anni Ottanta. E’ effetto di oltre 3 milioni di disoccupati, dell’elevata disoccupazione giovanile, dei mancati pagamenti e della bassa liquidità di cui soffrono autonomi e piccole imprese.
SPESA E TASSE
Dispiace ricordarlo a chi invoca la fine del rigore, ma bisogna intendersi: deve finire il rigore fiscale che si accanisce su imprese e lavoro, ma il rigore nei conti dello Stato – cioè riduzione reale di spesa e tasse – non è mai cominciato. Fatta pari a 100 la pressione fiscale la pressione fiscale del 2000 in Italia a oggi è aumentata del 5%, mentre in Germania è scesa del 7% rispetto ad allora: il che spiega perché da noi il Pil reale procapite sia sceso del 6% rispetto al 2000 e dell’11% rispetto al 2008, mentre quello tedesco è salito del 15% rispetto al 2000. Quanto alla spesa pubblica, è in accelerazione sulle stesse previsioni del Def presentato da Renzi: ad aprile dagli 809 miliardi di spesa pubblica indicati per il 2014 si saliva sino a quota 852 nel 2018. Ma se guardiamo all’ultimo dato reale 2014 certificato dalla Ragioneria dello Stato, stiamo arrivando a 825 miliardi di spesa pubblica in questo solo 2014, con un più 7,8% sul 2013 e una spesa corrente che da sola aumenta del 3,4% a 535 miliardi. Ricordiamo che da noi la pressione fiscale reale – cioè al netto della stima ufficiale del sommerso – è al 53,2% del Pil “legale”, mentre è al 49,5% in Francia, al 37,6% in Spagna, al 32,5% in Irlanda. Se in un grafico disponiamo aggravi di pressione fiscale nella crisi da una parte e dall’altra le variazioni del Pil procapite, il risultato è che i paesi che più hanno stretto fiscalmente sono quelli che più hanno perso in termini di PIL.
Mentre nel resto del mondo la manifattura ha accresciuto i suoi volumi – fatto pari a 100 il livello 2000 - del 26% fino alla crisi 2007 e poi di un altro 10%, l’Italia al 2007 già aveva perso mezzo punto, e da allora ne ha persi altri 26. In termini di occupati, siamo passati dai 23,6 milioni del 2008 ai 22,4 di oggi, con un deterioramento della quota di lavoro a tempo indeterminato rispetto a quello determinato, e sommando i nuovi disoccupati ai precedenti siamo a quota 3 milioni, con disoccupazione giovanile nel Sud fino al 60%. Nel censimento 2011, sul 2001 avevamo nel saldo di imprese nate e morte oltre 100 mila unità produttive in meno con un milione di addetti spariti, da allora se ne sono aggiunte altre 20mila con ulteriori 160mila occupati in meno. In 7anni siamo passati dall’essere quinto paese produttore al mondo a ottavo: ancora non male visto che siamo il 23° per demografia, ma a preoccupare è la velocità della traiettoria al ribasso. Tra 2000 e 2013, la produzione a prezzi costanti ha perso il 48% nel tessile e nella pelletteria, il 52% negli autoveicoli, il 56% nell’elettronica, il 68% nel tabacco, il 99% nei computer e macchine per ufficio. Le costruzioni da sole – settore anticiclico per eccellenza, ma da noi no – hanno perso oltre il 40% del valore aggiunto che apportavano al Pil. L’export è stato in questi anni l’unica componente che trinava il PIL: fatto pari a 100 il livello 2007, quello extra-Ue a fine 2013 segnava un +20%, quello intra-Ue invece stava risalendo ma non oltre l’85%. Ma ora le crisi internazionali limitano anche l’apporto dell’export, che nel secondo trimestre ha dato un contributo negativo alla domanda complessiva italiana. Non ci vuole molto a capire, con questo bilancio da guerra persa, che il problema italiano resta da una parte la produttività da alzare, e dall’altra la mole di spesa e tasse da tagliare.