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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

IL FRAGILE ACCORDO DAL MEDIOEVO ALLE LINEE SUL PIAVE

Sentiamo invocare da giorni dall’Onu, da capi di Stato e dalle diplomazie una tregua fra Israele e Hamas per motivi sia umanitari sia politici per fermare una guerra che semina morte più che tra i combattenti tra gli innocenti. Che cosa sia una tregua lo sanno tutti; anche i ragazzi che, dopo essersi scambiati un sacco di botte, alla fine si dicono: «Va bene, facciamo tregua». La tregua tra parti nemiche è una sospensione temporanea di ostilità, in attesa di un chiarimento, di trattative che possono avere o non avere esito. Lo stato di tregua è naturalmente tanto più difficile quanto più tra le parti in conflitto esiste una netta differenza di forze; e allora quella più debole può essere rafforzata solo se e quando importanti partner esterni (come nel caso attuale l’Onu, gli Stati Uniti, l’Ue, ecc.) intervengono facendo valere il loro peso.
Le tregue non si danno unicamente tra soggetti che si confrontano in armi, ma anche, per esempio, nei conflitti economici e sindacali o nei contrasti doganali. Esse per loro natura sono precarie. Sono cioè ricognizioni che possono portare alla pacificazione, ma anche espedienti transitori in attesa di riprendere la lotta. In pieno Medioevo, nel 1179, la Chiesa aveva istituito la cosiddetta “Tregua di Dio”, con la quale si chiedeva la temporanea sospensione dei conflitti armati per consentire l’adempimento delle funzioni religiose. Ma un caso che possiamo considerare classico fu la tregua di Vaucelles, stipulata il 5 febbraio 1556 tra il re di Spagna Filippo II e il suo antagonista Enrico II, sovrano di Francia. Tra i loro due paesi era scoppiata nel 1552 la guerra, che si era protratta per tre lunghi anni, spossando le energie di entrambe le parti. Sennonché già nell’ottobre del 1556 la tregua venne rotta e ripresero le ostilità che si protrassero fino alla pace nell’aprile 1559, allorché i contendenti erano giunti all’estremo. Ma potremmo ricordare anche un tutt’altro tipo di tregue, nate dal basso, frutto di infinita stanchezza, del disgusto per le morti e i ferimenti, espressione del desiderio struggente e disperato di vivere un momento pur fuggente di ritorno alla comune umanità.
Si pensi a quanto ripetutamente avvenuto nella Prima guerra mondiale, specialmente sul fronte che in Francia opponeva i soldati francesi e britannici ai tedeschi. Già dal 1914 ma ancora nel ’15 e almeno fino alle battaglie di Verdun e della Somme, gli uomini nelle trincee avevano stabilito dei “cessate il fuoco” spontanei nei giorni prima di Natale. Fu la cosiddetta Tregua di Natale, poche ore stabilite di comune accordo in cui le ostilità venivano sospese. Così come ci furono episodi di contatto umano tra nemici al fronte in alcune precarie zone franche: qualche parola scambiata, qualche sigaretta che passava di mano. Per poche ore in alcune occasioni i militari che si erano sparati gli uni agli altri gettarono le armi, sospesero l’“inutile strage”, quasi si sentirono fratelli. Poi tutto venne nuovamente rovesciato.
Perché le tregue non durino lo spazio di un mattino, non diventino mere occasioni per riprendere magari con sempre maggiore asprezza lo scontro, occorre che esse poggino su presupposti solidi, che in ultima analisi sono la rimozione delle cause che quello hanno provocato. Era ben consapevole Niccolò Machiavelli della fragilità delle tregue che non giungono a spegnere gli incendi che hanno attivato il ricorso alle armi. E il conflitto israelopalestinese insegna davvero tutto in proposito.
Sono trascorsi poco meno di due mesi da quando l’8 giugno le televisioni hanno trasmesso la scena di Shimon Peres e Abu Mazen che si abbracciavano di fronte a Papa Francesco. Poi l’incubo è ricominciato. In questi giorni, di fronte a quanto avviene nella striscia di Gaza, l’appello alla tregua è generale, salvo che da parte degli schieramenti in conflitto. Il governo israeliano vuole andare sino in fondo, e così Hamas. Ci sarà finalmente la tregua? Una tregua che possa aprire le porte alla pace? Auguriamoci che l’ardua sentenza non sia affidata ai posteri. Fa terribilmente temere il fatto che nessuno dei grandi nemici lasci anche solo intravedere di essere disposto a misurarsi con le condizioni che consentono che le tregue a cui periodicamente sono costretti a piegarsi non risultino altro che pause tra una guerra e l’altra. Le tregue positive, che danno veramente buoni frutti, sono quelle che portano a un’accettabile legittimazione reciproca, al rispetto dell’identità di ciascuno, che non lasciano insomma le cose come prima.
Massimo L. Salvadori, la Repubblica 25/7/2014