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 2014  luglio 25 Venerdì calendario

SIAMO ATLETI DEL VIDEOGAME

Sul grande schermo scorrono le immagini dei soldati che armati fino ai denti si danno la caccia, mentre la voce dei telecronisti si mescola con il rumore di proiettili ed esplosioni, e il pubblico nell’arena grida di giubilo ad ogni uccisione, come ai tempi dei gladiatori nel Colosseo. La scena non è tratta dalla fantasia di Philip K. Dick, ma si svolge sotto i nostri occhi. Siamo a Los Angeles e questa è la finale dei campionati mondiali di "Call of Duty", il videogioco bellico di Activision che da anni è in cima alle classifiche mondiali di vendita: basta impugnare il joypad per essere arruolati in una guerra ludica, in cui per avere la meglio bisogna annientare il nemico, conquistare obiettivi sensibili, difendere le postazioni. Ma nella città degli angeli non c’è più in ballo solo il gioco che tiene incollati milioni di ragazzi in tutto il mondo, collegati online alla Xbox One, la console di Microsoft che rende la guerra ancora più realistica: i concorrenti arrivati qui si sfidano per un montepremi da un milione di dollari (400 mila vanno ai vincitori), in partite a squadre da quattro giocatori ciascuna, dove per vincere contano non soltanto i riflessi di chi preme il grilletto o si abbassa più velocemente per evitare un proiettile, ma anche la conoscenza delle mappe virtuali in cui si muovono i soldati, l’affiatamento e le tattiche del team.
Il torneo si svolge in un immenso tendone allestito a downtown, nel buio squarciato solo dalla luce dei monitor. I concorrenti sono maggiorenni, perché il gioco è vietato ai minori, anche se alcuni sembrano appena usciti dalle medie. Tutti si incitano, si parlano durante le partite, si danno il cinque ogni volta che sconfiggono gli avversari. E alla fine dei tre giorni trionfa il team Complexity battendo EnVyUS, in una finale tutta americana, mentre gli italiani sono già usciti di scena al primo turno, un po’ delusi dopo l’ottavo posto e i 25 mila dollari portati a casa lo scorso anno. La débâcle la spiega Leonardo Nisi, 22 anni, il più vecchio del team e l’unico componente presente a Los Angeles anche nel 2013: «La verità è che non c’è vera competizione, perché gli americani si allenano tutto il giorno e sono supportati non solo dalle famiglie, ma anche dagli sponsor e da una cultura che non li considera dei perditempo. In Italia invece un vero movimento non c’è e puoi permetterti di giocare tutto il giorno finché vai a scuola, ma poi alla mia età tutti iniziano a ripeterti: quand’è che ti trovi un lavoro vero?».
D’altra parte il fenomeno degli eSport, i tornei di videogame trattati alla stregua di sport elettronici, con le loro varie discipline che variano a seconda del gioco (sparatutto, strategico, sportivo, eccetera) e gli eventi sparsi in giro per il mondo, in molti Paesi è una cosa dannatamente seria. È così certamente negli Stati Uniti, dove competono veri professionisti pagati per giocare: «I nostri atleti si allenano almeno 8 ore al giorno e hanno uno stipendio di 4.000 dollari al mese», spiega Jeremy Negron, ex giocatore che si è messo a fare il manager fiutando l’affare. Perché i giocatori forti sono una garanzia di ricchi premi e laute percentuali. Per avere un’idea delle cifre basti pensare che Patrick Price, 19 anni, uno dei trionfatori, in quattro anni di attività col solo "Call of Duty" ha vinto 171 mila dollari nei vari tornei nazionali che si svolgono durante l’anno e ora punta al record di Jonathan Wendel, forse il più celebre gamer d’America, che a 33 anni ha incassato 454 mila dollari e ormai è un imprenditore che firma linee di mouse, cuffie e joypad per gli aspiranti campioni.
Negli Stati Uniti, del resto, ci sono delle vere e proprie palestre dove i giocatori si allenano: «Tre componenti del nostro team vivono lì», spiega Joseph Stokes dello staff di EnVyUS, «e uno viene a stare a tempo pieno insieme ai compagni due settimane prima dei tornei importanti, perché affinare il gioco di squadra è fondamentale». Stokes nel giro usa il soprannome Fearless, "senza paura", perché qui tutti, manager compresi, hanno un nickname che cerca di intimidire gli avversari. A guardarlo però, con l’aria bonaria e i chili di troppo che si porta appresso non pare esattamente un eroe d’azione. La stessa cosa non può dirsi per i concorrenti, quasi tutti longilinei, a dispetto di quanto si potrebbe pensare di chi passa ore e ore seduto davanti alla tv a videogiocare. Perché in queste fabbriche in cui si allevano nuovi campioni anche l’addestramento fisico è fondamentale, tanto che molti hanno a disposizione spazi attrezzati per il body building, necessari a tenersi in forma e scaricare lo stress. Ecco perché Ian Porter alla conferenza stampa dopo la vittoria ammette candidamente: «Penso che la prima cosa che ci compreremo con i soldi è una bella vacanza, perché abbiamo bisogno di staccare un po’», dice.
L’Italia sotto il profilo degli eventi e dei premi è decisamente indietro: il più ricco si chiama Personal Gamer, è sponsorizzato da GameStop, catena di negozi che vende videogame, e ha un montepremi di 16 mila euro, spalmati però su diversi titoli. «Abbiamo vinto il torneo di "Call of Duty"», spiega Nisi «e abbiamo intascato 400 euro: un’eccezione, perché di solito in palio ci sono prodotti come le cuffie o al massimo un televisore». «Fino allo scorso anno in Italia c’erano almeno 3 o 4 tornei importanti, con vincite in denaro non altissime ma sufficienti a togliersi qualche sfizio», spiega Mattia Guarracino, 22 anni, romano, neocampione a "Fifa 14", simulazione di calcio che ovviamente è seguitissima da noi. «Nonostante abbia vinto per sei volte i campionati italiani», prosegue «è difficile trovare sponsor che investano nelle mie capacità. Un po’ strano, considerata la passione per il calcio e il giro di affari che vi ruota intorno». Nonostante mille difficoltà, qualcuno che infonde un po’ di ottimismo c’è: Alessandro Avallone, ligure 27 anni, è forse il giocatore professionista più famoso in Italia, capace di costruirsi una carriera, per lo più all’estero, dopo avere esordito a soli 14 anni. «Servirebbero molti più tornei con cadenza regolare, e ovviamente più aiuto ai giocatori, ma sono certo che gli eSport in Italia si svilupperanno ulteriormente, raggiungendo il livello degli altri Paesi. La fiducia me la dà il mutamento culturale che c’è stato in Italia negli ultimi dieci anni nei confronti del videogioco».
Come negli sport tradizionali, anche in quelli elettronici chi è partito prima e con maggior convinzione, è avvantaggiato: ecco perché persino gli Stati Uniti vengono sopravanzati dalla Corea del Sud, dove già nel 2000 erano presenti i primi "atleti" sponsorizzati e allenati ad hoc. Non a caso il campione dei campioni, Jae Dong Lee, 24 anni e oltre mezzo miliardo di dollari in vincite, è una star come molti altri fortissimi giocatori che competono nella Lega professionistica nazionale, fondata a Seul con l’approvazione del Ministero della Cultura e dello Sport. Anche l’Europa ha una sua lega e così gli Stati Uniti, ma anche nei Paesi più organizzati i problemi non mancano: per trovare sponsor per i tornei c’è bisogno di un pubblico ampio, come accade negli sport tradizionali dove molti costi sono coperti dai diritti tv. Per questo negli Usa la Major League Gaming ha un suo canale televisivo che per ora trasmette le partite in dirette sul Web e sulle console: «Per raggiungere più spettatori attraverso la tv c’è bisogno di spiegare cosa sono gli eSport», spiega il cofondatore della MLG Mike Sepso, «perché molti non capiscono le regole. Inoltre c’è bisogno di creare una regia delle sfide, in modo da fare vedere al pubblico ciò che i giocatori non possono vedere, come ad esempio la posizione di tutti i soldati sulla mappa di "Call of Duty", cosa che rende la telecronaca più avvincente». In ogni caso la dimostrazione che la platea potenziale è immensa è data dalla recente esplosione di Twitch: il sito nato nel 2011 con cui chiunque, anche attraverso la propria console può trasmettere le proprie partite dialogando col pubblico che magari segue sul pc o l’iPad, ha già 45 milioni di spettatori in tutto il mondo. Al punto che la popolarità tv è diventata un obiettivo anche per i giocatori: «Per un professionista», spiega Giorgio Calandrelli, 21 anni di Ostia, anch’egli nel team italiano a Los Angeles,«è impossibile ignorare l’attività in video: più utenti ti seguono, maggiori sono i guadagni che puoi ricavare dalla pubblicità e più possibilità hai di trovare sponsor per i tornei».