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 2014  luglio 24 Giovedì calendario

SHAKESPEARE IN 18 ORE. COSI’ IL TEATRO DIVENTA UNA GARA DI RESISTENZA

Diamo i numeri: 18 ore di spettacolo, 15 atti, 150 personaggi, 10 mila versi. Ingresso in teatro alle 10 del mattino, uscita (per i sopravvissuti o per chi non aveva già scelto la libertà) alle 4 del mattino seguente. Già: Shakespeare non è mai sintetico. Però di solito le tre parti del suo Enrico VI si rappresentano separate, anche perché «fanno serata» da sole.
Invece quest’anno al Festival di Avignone il regista Thomas Jolly, emergente genietto francese di 32 anni, ha deciso di metterle in scena di fila: tutta la guerra delle Due Rose delitto per delitto, gli anni più pulp della storia d’Inghilterra fra stragi, tradimenti, amori, assassinii, orrende nefandezze e versi sublimi. Molto meglio di qualsiasi telefilm, cui peraltro, riferisce Le Monde, il regista è un ghiotto consumatore. Del resto, l’amatissima serie tivù Game of Thrones cita esplicitamente il Bardo, quindi il cerchio è completo: un regista mette in scena Shakespeare ispirandosi al serial ispirato da Shakespeare. In ogni caso, 18 ore sono impegnative, se non altro per le parti meno nobili dell’anatomia degli spettatori. Una vera cattività avignonese: altro che «Sur le Pont d’Avignon / l’on y danse»...
Il successo però è stato grandioso. Calare il Jolly è la conferma che Shakespeare funziona sempre, anche e forse soprattutto in versione alluvionale, come del resto dimostrarono anni fa, a Salisburgo, i due fiamminghi Tom Lanoye e Luk Perceval con Schlachten!, «Battaglie», la guerra dei Cent’anni e quella delle Due rose in dodici ore di frullato del Bardo e dei suoi contemporanei.
Naturalmente quest’ultima maratona ha riaperto il dibattito sugli spettacoli fluviali che sempre più spesso certi registi (e quasi sempre i soliti) infliggono a un pubblico di solito ben felice di farseli infliggere. Sono i casi in cui il teatro diventa una gara di resistenza fra attori e spettatori, una sfida all’ultima amnesia per i primi e all’ultimo crampo per i secondi. Finché, esausti, stravolti e felici, i superstiti si congratulano l’uno con l’altro. E si danno appuntamento alla prossima tirata.
Qui il recordman è indiscutibilmente Bob Wilson, il cui teatro stilizzato e ritualizzato e lentissimo si dispiega meglio sui tempi lunghi. Sarà impossibile per chiunque replicare il suo Ka MOUNTain and GUARDenia Terrace, l’immane spettacolo-installazione realizzato sui monti dell’Iran dal 2 al 9 settembre 1972: 168 ore (a questo punto, gli ayatollah non sembrano poi così male). Una versione «ridotta», Ouverture, fu presentata a Parigi: «solo» 24 ore. Così è Wilson: il suo Anello del Nibelungo (visto a Zurigo e poi a Parigi) durava quanto previsto da Wagner, 16 ore in quattro serate, ma sembrava perfino più lungo.
I grandi classici, ovviamente, istigano le peggiori bellurie. Uno che sfida i secoli è Peter Stein, specialista nel mettere in scena i più massicci mattoni teatralfilosofici tedeschi fra Sette e Ottocento in versioni integrali. Il record di Stein (che in tedesco significa «pietra») è il Faust di Goethe, officiato a Berlino nel 2000 con un pare memorabile Bruno Ganz: 22 ore. Giorgio Strehler, per il suo, di Faust, si limitò a una selezione: appena otto ore, e in due giornate.
Tornando a Stein, la trilogia del Wallenstein di Schiller con Klaus Maria Brandauer durò dieci ore, l’Orestea una e trina nove. Chi scrive sopravvisse ai Demoni, quasi integrale da Dostoevskij, a Milano nel 2010. Si iniziava alle 11 e si finiva alle 23, con sei intervalli: quattro corti di un quarto d’ora, due lunghi per mangiare (ovviamente leggero per evitare l’abbiocco: insalate, bresaola e così via). La fine della ricreazione era annunciata dallo stesso Stein agitando un campanaccio. Standing ovation a una veterana del Piccolo, anche piuttosto anziana (raccontava di aver visto Ferruccio Soleri fare Arlecchino da giovane), che uscendo tutta arzilla annunciò: «Magari domani torno».
Senz’altro la sciura si era temprata con le mitiche «ronconate» del grande Luca: 12 ore per Ignorabimus di Holz nell’86, idem per I fratelli Karamazov nel ’99. Se poi andiamo in Oriente i tempi si allungano ancora, sfidando la catalessi. Per rinfrescare Il padiglione delle peonie, capolavoro dell’epoca Ming, il regista cinese Chen Shi-Zeng arrivò alle 20 ore, ma i tradizionalisti non gradirono. Peter Brook, per il Mahabharata indiano, si limitò a nove. Ma quando il canadese Robert Lepage, a Spoleto, presentò Progetto Hiroshima - I sette rami del fiume Ota, sette come le ore di durata, al sipario finale, verso le quattro del mattino, un celebre critico si alzò esausto ma non domo dalla poltrona minacciando: «Pagherete tutto, pagherete caro». E invece no. La gara a chi lo fa più lungo continua con successo. Finché dura...