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 2014  luglio 24 Giovedì calendario

PANAMA, IL CANALE CON UN PAESE INTORNO

Nel 1941 – scrive la studiosa Alberta Wohlstetter nel saggio Pearl Harbor, warning and decision, capolavoro di storia dell’intelligence – gli Stati Uniti ricevevano costanti informazioni dal Giappone e dalle ambasciate su un imminente attacco di Tokyo. Le Filippine, controllate dal generale MacArthur, erano sotto tiro secondo le informazioni in codice Magic, che gli americani decrittavano dai messaggi segreti giapponesi, come pure la Siberia, per accerchiare a Nord Stalin. Il piano più ambizioso riguardava però il Canale di Panama, allora in mano agli americani. Una dozzina di navi commerciali battenti bandiera del Sol Levante dovevano darsi appuntamento nel Canale, che dal 15 agosto 1914 unisce l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, risparmiando la paurosa avventura di doppiare Capo Horn e la traversata delle zone tempestose tra i paralleli 50° e 40°, che i capitani inglesi dei velieri chiamavano Roaring Forties e Furious Fifties, Quaranta Urlanti e Cinquanta Furiosi. A quel punto, passate le chiuse Gatun, accesso via Atlantico, o le chiuse Miraflores, accesso via Pacifico, le navi giapponesi si sarebbero autoaffondate una sull’altra, sabotando il sistema di dighe e dislivelli che regola la navigazione nel Canale. Per tutta la guerra contro il Giappone, l’America non avrebbe più avuto libero passaggio tra gli oceani delle sue coste.
L’attacco a Panama non avvenne, alla fine lo stato maggiore di Tokyo optò per il bombardamento contro la base Usa alle Hawaii, a Pearl Harbor, dove gli americani si difendevano contro i sabotaggi degli abitanti di origine giapponese, non contro le incursioni aeree. La Wohlstetter, in una lezione che il regista Errol Morris illustra nel magnifico documentario The unknown known (La conoscenza sconosciuta) dedicato all’ex ministro della Difesa Usa Donald Rumsfeld, insegna che da segnali contrastanti di intelligence possiamo dedurre conclusioni sbagliate. Da Pearl Harbor-Canale di Panama 1941, alle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein 2003.
Se dunque deciderete in qualche modo di ricordare, a Ferragosto, il centenario del Canale – opera immensa di ingegneria che i francesi avviarono nel 1881, sotto la guida di Ferdinand De Lesseps, padre del Canale di Suez, abbandonandola poi, con gli operai, poveri manovali e braccianti reclutati per salari di fame, decimati dalla malaria e dalla febbre gialla, finendo tra tangenti e arresti degni (o forse, meglio, altrettanto indegni) del nostro Mose –, non dimenticate quante volte la guerra l’ha lambito. Almeno da quando arrivano gli americani, americani di allora beninteso, giovani, forti, sicuri di sé, ingegneri provetti e militari duri ma efficaci, mica i neghittosi intellettualini del XXI secolo a Washington. Del resto l’Accademia Militare di West Point formava ufficiali-ingegneri che, esaminato il progetto francese, inorridiscono. Milioni di franchi sprecati, 25 mila poveretti morti per malattie tropicali, i giovani Stati Uniti vogliono far meglio dei colonialisti dei vecchi imperi d’Europa. L’epidemiologo Walter Reed - a lui è dedicata la Sanità militare Usa a Washington ancor oggi - costruisce baracche con reti antizanzare alle finestre e alle porte, gli acquitrini vengono bonificati, le larve mortali sterminate, il vitto migliorato contro lo scorbuto.
La Storia ruggisce sulle sponde di quello che sarà «il Canale», i francesi si scontrano con i colombiani, che rivendicano diritti nazionali sull’opera, il presidente americano Theodore Roosevelt – il cui fantasma aleggia sulle campagne elettorali Usa con lo storico consiglio «Parlate piano e portatevi dietro un nodoso bastone» – preferisce favorire la nascita di un nuovo Stato, Panamá. Il «nodoso bastone» è la squadra navale con la cannoniera «Nashville», che non suona musica country ma 14 pezzi di artiglieria, i colombiani non sanno cosa obiettarle, si forma il governo panamense di Demetrio Brid che offre insieme agli americani Canale e Paese. L’intesa forzosa finirà nel 1977, con l’accordo del presidente Carter. Nel 1956, quando il presidente Eisenhower intima a francesi e inglesi di non reagire contro la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del rais egiziano Nasser, non poche voci obiettano sarcastiche: voi americani siete antimperialisti nel Mediterraneo, mica a Panama.
L’ingegneria, in dieci anni di lavoro, 1904-1914, risolve enormi problemi, i dislivelli tra le aree del Canale, l’uso del vapore per aprire il percorso da allagare, dighe mobili e paratie gigantesche per permettere anche alle navi della Marina di cambiare oceano in sole 20-30 ore, progetto senza pari allora. La Storia non ha purtroppo progetti e percorsi altrettanto rigorosi, non ci sono derivate e integrali, compassi, regoli da geometra e geometrie euclidee o no, tutto è imprevedibile, caotico, «sconosciuta conoscenza», direbbe Rumsfeld.
Così il Canale di Panama, un secolo a Ferragosto, si salva ancora nel 1945, quando, disperati per la sconfitta imminente, i giapponesi decidono di lanciare infine l’attacco minacciato quattro anni prima, stavolta non con le navi da affondare – l’accesso alle chiuse era precluso alla Marina civile imperiale – ma con aerei kamikaze. Solo la caduta della base di Okinawa, nel giugno del 1945, salva le poderose dighe del Canale dalla distruzione, e permette fino a oggi a 210 navi di attraversarle ogni settimana. La prima fu la Ancon, già nel 1914 la seguirono altre 999.
Due settimane fa il Nicaragua e un consorzio cinese guidato dal fantomatico tycoon Wang Jing hanno annunciato di voler tagliare un secondo canale, a Nord, dalla foce del fiume Brito al lago Nicaragua, 300 chilometri. I 77 chilometri di guado a Panama avranno finalmente concorrenza, l’autostrada degli Oceani raddoppia a due corsie. Da qualche parte del mondo, mentre gli ingegneri civili disegnano il nuovo canale, i terroristi della storia faticheranno a progetti di distruzione. Il vecchio canale è riuscito a esorcizzarli, sopravvivendo. Possa il suo carisma proteggere, un secolo dopo, anche il nipotino settentrionale: a patto che i leader del futuro leggano la Wohlstetter e distinguano i segnali di pace dai rumori di guerra.
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