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 2014  luglio 24 Giovedì calendario

IL KENYA AL BIVIO TRA SVILUPPO E SICUREZZA

Sembra la trama di un vecchio film western. Un drappello di disperati galoppa in una città di frontiera, dà fuoco al saloon, rapina la banca, uccide i cittadini più in vista e scompare nel cuore della notte, prima che lo sceriffo si alzi dal letto.
Questo è quanto è accaduto, più volte, nei giorni scorsi, in una piccola cittadina keniota di nome Mpeketoni, appena a Sud del confine somalo, sulla costa dell’Oceano Indiano. La scorsa settimana un gruppo di uomini armati hanno sequestrato una mini-flotta di matatus, i piccoli taxi collettivi, e hanno scorrazzato, sparando, nel centro della città. Hanno dato alle fiamme negozi e banche. Nei villaggi dei dintorni sono andati porta per porta, facendo l’appello in base al nome. I musulmani, che potevano dimostrare di essere tali recitando il Corano, sono stati risparmiati. Gli altri sono stati uccisi sul posto a fucilate, o fatti a pezzi.
Gli assassini hanno svolto il loro raccapricciante lavoro con un atteggiamento quasi spensierato. La sparatoria è cominciata subito dopo le 8,30 di sera ed è andata avanti fino all’alba. Malgrado il rumore fragoroso delle armi da fuoco e i frenetici allarmi, nessuna forza di sicurezza si è presentata fino a quando gli aggressori non se ne erano già andati indisturbarti. Le forze di polizia della stazione locale, a malapena 100 metri di distanza, sono fuggite nella boscaglia - nonostante alti funzionari dell’intelligence di Nairobi tre giorni prima avessero avvertito i comandanti regionali di un possibile imminente attacco terroristico.
Incoraggiati dal facile successo di quella prima notte, gli assassini sono tornati quella dopo per un secondo attacco e di nuovo pochi giorni dopo. In totale sono morte 65 persone.
La sequenza degli eventi ha sconvolto il Paese e dato il via a un fiorire di teorie complottistiche. Una è che i terroristi somali di al-Shabaab abbiano colpito ancora. Dall’infame attacco del gruppo al centro commerciale Westgate, nel cuore di Nairobi lo scorso anno, il Kenya ha vissuto un gran numero di incidenti di minore entità, da esplosivi piazzati in mercati affollati, ad attacchi contro bar, stazioni di polizia e mezzi di trasporto pubblico. Al-Shabaab si è attribuita il massacro di Mpeketoni, ma i vertici kenioti puntano altrove.
Secondo alcuni, gli attacchi sono opera di kenioti – un’opposizione interna emergente, non dissimile dagli estremisti islamici Boko Haram in Nigeria. Nel corso dell’ultimo anno, un certo numero di religiosi musulmani radicali sono stati uccisi in circostanze misteriose a Mombasa, la principale città dell’irrequieta costa del Kenya. La persecuzione dei non-musulmani a Mpeketoni e nei villaggi circostanti, secondo questa teoria, è la vendetta di una nuova generazione di estremisti determinati a farsi «giustizia» da soli.
Una terza spiegazione è ancora più oscura: la nascita di un nuovo, violento, tribalismo. Il presidente Uhuru Kenyatta ha accusato «reti politiche locali» e politici senza scrupoli di orchestrare la violenza e fomentare un pericoloso clima di odio etnico.
Chiaramente c’è un’inquietante dimensione etnica per le uccisioni. Decenni fa, dopo l’indipendenza, il padre fondatore del Kenya, Jomo Kenyatta, mandò migliaia di kikuyu, appartenenti alla sua stessa tribù, a stabilirsi intorno a Mpeketoni. Gli sfollati erano per lo più musulmani. Oggi molti nutrono un profondo risentimento verso questi estranei, che vedono come usurpatori.
Malauguratamente tutto questo avviene in un contesto generale di tensioni etniche. Nel Kenya centrale, i kikuyu che vivono nella Rift Valley, dimora tradizionale della tribù Kalenjin, ultimamente sono stati i destinatari di volantini anonimi che li invitano a «tornare a casa». Pochi giorni fa nella provincia nord-orientale di Mandera, uomini del clan Degodia hanno incendiato case e imprese di proprietà di membri del clan rivale Gare. Si stima che nei disordini 75.000 persone siano state cacciate dalle loro case.
Agli occhi del mondo esterno, potrebbe sembrare che il Kenya stia scivolando verso un abisso. Senza dubbio, l’insicurezza dell’anno passato ha preteso il suo prezzo. Alcune ambasciate occidentali stanno valutando il ridimensionamento del personale. Il turismo è in crisi, in particolare nelle località costiere. Gli uomini d’affari kenioti lamentano che la crescita stia rallentando, insieme agli investimenti stranieri.
E tuttavia, pur oscurate dalle preoccupazioni per la sicurezza, ci sono ampie ragioni per essere ottimisti in uno dei Paesi più resilienti dell’Africa. Di fronte alle nuove tensioni, il governo ha preso una posizione ferma contro qualsiasi traccia di discorsi che incitino all’odio da parte dei leader politici nazionali o locali.
I tutori dell’ordine che non sono riusciti a far fronte alla crisi di Mpeketoni sono stati licenziati; ed è probabile che venga dato un analogo scossone anche all’interno dell’agenzia nazionale per la sicurezza del Kenya. Nel frattempo, una rete di media saldamente indipendenti e di organizzazioni della società civile stanno segnalando a tutti i kenioti i casi di corruzione e di pressioni indebite nei campi dello sviluppo e della sicurezza. Anche gli imprenditori e i religiosi chiedono una nuova politica di unità nazionale.
C’è un’altra buona notizia, che è andata persa nei recenti tumulti: il successo di una sottoscrizione da 2 miliardi di dollari di Eurobond, andata esaurita; la scoperta del primo grande giacimento di petrolio e di gas nelle acque costiere del Kenya e di un altro nel Turkana nordoccidentale – che promettono di fare del Kenya uno dei principali paesi esportatori dell’Africa.
In questi giorni, Nairobi assomiglia più a Los Angeles che all’arretrata capitale del Terzo Mondo di un tempo. La sfida posta alla sicurezza del Kenya è grave - e rischia di aggravarsi ancora. Ma i desperados non porteranno alla rovina il Paese, per quanti titoli sensazionali possano ispirare.

*Preside della Graduate School of Media and Communications alla Aga Khan University
di Nairobi.