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 2014  maggio 20 Martedì calendario

I 42 PRIMATI NEGATIVI DELL’ITALIA IN EUROPA


ROMA — Per dare la misura dell’abisso che la crisi ha scavato fra l’Italia e la Germania basterebbero due numeri: i 941.500 posti di lavoro che noi abbiamo perduto e il milione 684.200 che loro invece hanno guadagnato. Tutta materia, questa, per chi sostiene che in Europa è arrivato il momento di farla finita con l’austerity alla tedesca; e si prepara, dicono i sondaggi, a mandare un segnale forte e chiaro alle elezioni di domenica prossima. Se non fosse che il rapporto appena sfornato dall’ufficio studi della Confartigianato descrive un Paese che arranca rispetto a tutti gli altri partner continentali per ragioni ben più profonde della politica di rigore nei bilanci pubblici. Un’Italia che scivola sempre più in basso in tutte le classifiche, dovendo fare i conti con problemi strutturali mai affrontati e risolti. Soltanto così si può spiegare perché nei principali indicatori economici e sociali presi in esame nel documento in questione, dall’occupazione alla spesa pubblica fino ai tassi di abbandono scolastico e all’uso di Internet, il nostro Paese presenti valori al di sotto della media dell’eurozona in ben 42 casi su 50.
Prendiamo quello che nelle ultime settimane ci ha tristemente proiettato di nuovo all’attenzione delle cronache giudiziarie europee: la corruzione. Per l’autorevole Transparency international l’Italia occupa la casella numero 69 su 177 nazioni. Da quando l’indice viene misurato, nel 1995, anno in cui in Italia si celebravano molti processi di Mani pulite, abbiamo perduto ben 36 posizioni in graduatoria. Fra i Paesi dell’eurozona la sola Grecia è dietro di noi, all’ottantesimo posto. Semplicemente avvilente il confronto con la Germania, dodicesima fra i più virtuosi.
Ed è perfino tedioso sottolineare come questa poco edificante performance italiana abbia certamente a che fare pure con una burocrazia lenta e oppressiva. Perché se è vero che il costo del personale della pubblica amministrazione (10,5% del Pil) è in linea con la media del Continente, e nettamente inferiore a quello della Francia (13,3%), la differenza è tutta nell’efficienza. Da noi una disputa commerciale davanti al giudice civile si risolve mediamente in 1.185 giorni, contro i 547 dell’eurozona e i 394 della Germania. E se paradossalmente siamo oggi più veloci della media dell’area euro nella tempistica per avviare un’attività (6 giorni contro 11) e registrare una proprietà (16 giorni contro 31), restiamo al palo quando si tratta di ottenere una licenza edilizia (233 giorni a fronte di 167) o pagare le tasse (269 ore contro 187). Per non parlare dei tempi di pagamento dei fornitori da parte della pubblica amministrazione, che nonostante gli sforzi viaggiano ancora al ritmo gasteropode di 170 giorni, 124 in più rispetto alla Germania e 90 ai Paesi euro. Ancora: secondo Paese manifatturiero continentale, l’Italia impiega 37 giorni per esaurire una procedura di import-export, a fronte di 16 in Germania e 21 nell’eurozona. Il costo dell’energia per le piccole e medie imprese è da noi superiore del 30,1%. Paghiamo il gasolio per autotrazione mediamente il 17,4 per cento in più. E trasportiamo su rotaia appena il 12,2% delle merci, contro il 15,4 nell’eurozona e il 18,4 nell’intera Unione.
E’ la fotografia, secondo il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti, di un Paese «ancora troppo poco europeo a poche settimane dall’inizio del semestre di presidenza».
Sintomo drammatico, l’andamento dell’occupazione: giovanile e non. In Italia i ragazzi di età compresa fra i 15 e i 24 anni che lavorano sono il 16,3%: metà delle media dei Paesi euro, attestata al 31,4%. I giovani sotto i trent’anni che hanno un’attività lavorativa e contemporaneamente seguono percorsi formativi sono il 3,4%, a fronte del 14,4% nell’eurozona. Il tasso di abbandono scolastico è di quasi quattro punti superiore alla media europea: circa il doppio della Germania. Paese nel quale il livello di scolarizzazione degli adulti è triplo del nostro.
E l’uso delle nuove tecnologie? Oltre un terzo degli italiani (34%) non ha mai navigato su Internet, quota che si riduce a meno di un quinto (19,8%) nell’eurozona. Mentre i nostri connazionali che hanno rapporti telematici con la pubblica amministrazione sono il 10%, contro il 23% europeo.
Difficile dunque stupirsi, di fronte a questi dati, se negli ultimi dieci anni la nostra produttività è diminuita dello 0,9 per cento mentre quella dell’eurozona aumentava del 6,9 per cento.
E se la nostra crescita è da un ventennio la più bassa d’Europa, mentre la ricchezza prodotta da ciascun italiano (25.600 euro) risulta inferiore di 3 mila euro a quella dell’eurozona (28.600) e di quasi 8 mila a quella tedesca (33.300). Certo, sono numeri che non possono tenere conto dell’impatto dell’economia sommersa, che qui supera un quinto del Pil (21,1%), rispetto a una media dei Paesi euro pari al 14,4%: dato peraltro fortemente condizionato dal peso dell’Italia. Ma di questo non si può certo andare fieri.