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 2014  aprile 24 Giovedì calendario

IL PESO DI MOSCA


[più pezzi: Russia, Eurasia, Iran (Economia)]

• RUSSIA di Ottorino Restelli
Nel 2012, mentre l’Europa pativa i rovesci provocati dalle politiche economiche prodotte dalle tesi dell’austerità espansiva e il PIL segnava in media -0,9% nell’area euro (ben 17 Paesi) e -0,6% nell’Unione Europea (28 Paesi), la Russia vedeva crescere il proprio PIL del 3,4%, mentre l’inflazione si attestava al 5,1%.
Nel 2013 il PIL russo cresceva invece dell’l,5%, in conseguenza del permanere della scarsa domanda dall’UE – rilevante partner commerciale della Federazione Russa – e della caduta della domanda e del prezzo del petrolio (il prezzo del greggio degli Urali ha segnato -3% in un anno). La domanda interna, investimenti e consumi, rimaneva moderata e solo nel 2012 tornava ai livelli precedenti la crisi dei mutui sub-prime (2009).
La causa della modesta crescita del PIL russo, dopo anni di vero e proprio boom, è da imputare alla caduta degli investimenti, che nel primo trimestre 2013 ammontavano allo 0,1% a fronte di un +15,5% dello stesso trimestre 2012 (con un contributo alla crescita nullo, rispetto al +2,1% del 2012), in conseguenza del completamento dei programmi per la costruzione delle grandi infrastrutture e degli impianti per le Olimpiadi invernali di Sochi.
Va comunque registrato che, nonostante la bassa domanda interna, le imprese producono circa l’80% della propria capacità, mentre il tasso di disoccupazione è al 5,4%. In queste condizioni, afferma la Banca Mondiale, interventi di politica economica volti a stimolare la crescita potrebbero scontrarsi con strozzature dal lato dell’offerta e quindi accrescere le tensioni inflazionistiche e spingere l’aumento dei prezzi oltre il 5% atteso dalla Banca Centrale Russa per il 2014 (il tasso d’inflazione è stato del 6,8% nel 2013). Le tensioni inflazionistiche potrebbero, inoltre, essere ulteriormente alimentate anche dalla svalutazione del rublo in conseguenza della crisi ucraina (-10% rispetto a dollaro ed euro nei primi tre mesi e mezzo del 2014).
La Russia presenta una forte fuoriuscita di capitali che, seppure a livelli inferiori rispetto agli 81 miliardi di dollari del 2011, si è attestata a 63 miliardi di dollari del 2013. Il deficit federale è stato -0,5% del PIL nel 2013, ma le previsioni indicano un pareggio di bilancio già nel 2014. La bilancia corrente pur in surplus, registra un trend decrescente: 97 miliardi nel 2011 (5,1% del PIL), 75 miliardi di dollari nel 2012 (3,7% del PIL) e, si stima, 33 miliardi di dollari nel 2013.
La Russia, come noto, è un’economia che dipende in modo determinante dalle risorse naturali, in particolare idrocarburi. Nonostante i massicci investimenti nello sviluppo delle industrie high-tech, oggi solo il 20% dei manufatti esportati ha un alto contenuto tecnologico. L’economia della Federazione Russa nel terzo mandato del presidente Vladimir Putin è ancor meno diversificata di quanto non lo fosse l’economia dell’Unione Sovietica. La dipendenza dal petrolio e dal gas è progressivamente cresciuta fino a raggiungere, nel 2012, il 70% del valore delle esportazioni. Il petrolio e il gas contribuiscono al 50% del bilancio federale, tanto che il deficit del bilancio federale al netto del contributo degli idrocarburi è dell’11%, mentre il prezzo minimo a cui dovrebbe essere venduto un barile di petrolio per garantire il pareggio del bilancio statale è pari a 115 dollari (Banca Europea Ricostruzione e Sviluppo, 2012).
Nonostante l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nell’agosto del 2012 e l’arrivo delle imprese straniere in settori merceologici rilevanti (auto, alimentare, assicurazioni), l’economia russa continua a essere dominata dalle grandi imprese e da veri e propri monopoli – grandi e vecchie imprese che producono in settori maturi e impiegano molti lavoratori – tanto che il 25% delle imprese produce il 94,7% del totale. Il tasso d’ingresso di nuove imprese, che testimonia il grado d’innovazione, si è contratto nell’ultimo decennio e si colloca al 50% di quello osservato nel biennio 1998-1999. Le barriere all’entrata (amministrative, economiche etc.) rendono, infatti, molto difficile la creazione di piccole e medie imprese, limitando così al 17% il loro contributo al PIL nazionale.
Un elevato livello di dipendenza dall’esportazione di risorse naturali e una scarsa diversificazione produttiva accrescono la volatilità della produzione ben oltre la naturale ciclicità economica e ciò scoraggia gli investimenti privati. Inoltre, la crescita del valore del rublo e della domanda nei settori non di mercato (servizi e costruzioni), hanno determinato negli scorsi anni rilevanti distorsioni nel mercato del lavoro e perdita di competitività nei settori di mercato, che hanno ulteriormente depresso la diversificazione produttiva (il fenomeno è conosciuto come Dutch Disease o Male Olandese). Tutto ciò fa sì che nel 2010 la Russia abbia avuto un vantaggio comparato in soli 103 prodotti, sui 1.242 individuati dalla Standard International Trade Classification, in flessione rispetto ai 143 del 1996 (nello stesso anno la Cina aveva un vantaggio competitivo in 513 prodotti, rispetto ai 479 del 1996) e facendo sì che solo il 3% delle imprese russe esportasse, contro il 15% delle imprese americane e il 17% di quelle francesi (World Bank, 2012).


NON GAS-IAMOCI TROPPO–

• EURASIA
Azerbaijan, Bielorussia, Cecenia, Georgia, Turkmenistan, Kazakhstan, Mongolia, Uzbekistan. Sono solo alcuni dei pezzi che vanno a comporre l’agitato puzzle dell’immenso spazio post-sovietico ai bordi della grande madre Russia. Un mix di etnie, culture e religioni, in molti casi ancora in cerca di stabile collocazione a poco più di vent’anni dalla disgregazione dell’URSS. Ai margini di questo scenario continuano ad ardere sentimenti separatisti, specie nel Caucaso, dove si gioca una delle più importanti partite energetiche del pianeta.

• AZERBAIJAN–
L’Azerbaijan oggi è forse lo Stato geo-strategicamente più rilevante del Caucaso, anche grazie ai cambiamenti politici ed economici in atto in Europa e Asia. La presenza di grandi giacimenti petroliferi ha garantito una crescita costante che ha sostenuto il governo autoritario e quasi “dinastico” della famiglia Aliyev, con Heydar prima e il figlio Ilham poi, succeduto al padre nel 2003 e oggi al suo terzo mandato.
Corruzione, brogli elettorali e repressione non hanno impedito ai governi occidentali di mantenere buone relazioni diplomatiche con Baku: in previsione di un declino della produzione e dell’esportazione di petrolio, il Paese ha recentemente concentrato la propria politica economica sullo sfruttamento degli enormi giacimenti di gas del Mar Caspio, dei quali il più noto per dimensioni e potenziale (le ultime stime parlano di 1,7 trilioni di metri cubi) è quello di Shah Deniz. Di quel consorzio fanno parte società britanniche, iraniane norvegesi, francesi, russe e turche, oltre alla compagnia di Stato SOCAR.
Inoltre, il consorzio di Shah Deniz è da poco entrato a far parte del progetto di rete di gasdotti, denominato “Corridoio Meridionale”, fortemente voluto dall’Unione Europea per porre un freno alla dipendenza energetica dalla Russia. I giacimenti e il possesso di una quota della rete viaria del gas, che un giorno potrebbe connettere l’Europa all’Asia arrivando fino al Turkmenistan, consentiranno all’Azerbaijan di godere ancora di un tasso di crescita sostenuto per molto tempo, ma anche di incrementare la propria influenza negli equilibri politici regionali.

• TURKMENISTAN–
Con il 4,3% delle risorse mondiali di gas situate sul suo territorio, tra cui il secondo giacimento più vasto del pianeta, il Turkmenistan è lo Stato più corteggiato dell’Asia nell’era della corsa all’oro blu. Russia e Cina sono tra i maggiori partner commerciali, ma anche Iran e Stati Uniti sono presenti con varie attività. Inoltre, in fila per la conclusione di accordi con Ašgabat ci sono: Unione Europea, Ucraina, Giappone, Pakistan e India. Ucraina e UE, in particolare, stanno cercando di affrancarsi dal gas russo della Gazprom e dal regime di monopolio dei prezzi che la compagnia moscovita è in grado di imporre al continente grazie al controllo della rete di gasdotti che dall’Asia arriva all’Europa.
Il gas turkmeno, molto meno costoso di quello russo, attualmente transita solo attraverso la rete di gasdotti controllata da Mosca. Per questo motivo, l’UE sta spingendo per una ripresa del gasdotto Trans-Caspio, un progetto del 1999 che dal Turkmenistan (e forse Kazakhstan) doveva portare il gas in Europa centrale, bypassando Russia e Iran. L’opposizione di questi ultimi e l’influenza di Mosca su Ašgabat e Astana (capitale kazaka) ha impedito fino ad ora un impegno reale sul progetto da parte delle autorità turkmene, ma i recenti sviluppi dei gasdotti Trans-Anatolico e Trans-Adriatico, inducono molti a ritenere che in futuro le resistenze del Turkmenistan possano essere superate e che una ramificazione del cosiddetto “Corridoio Meridionale” possa collegare anche questo Paese.

• IL PIÙ FEDELE DEGLI ALLEATI BIELORUSSIA
In piena crisi ucraina, non sorprendono i movimenti di arsenale militare russo a mo’ di avvertimento in territorio bielorusso, ultimo vero e proprio satellite dell’ex impero sovietico nell’Europa dell’Est (a un passo da Kiev). Questo territorio, il cui processo di russificazione risale al XVIII secolo, è assente da ogni traiettoria comunitaria dell’Unione Europea, è immune dalle spinte europeiste che invece pervadono alcuni suoi vicini ed è sempre rimasto strettamente ancorato alla grande Madre Russia. Convinzione ideologica o mero calcolo economico? Piuttosto, una necessità strutturale.
Di certo, il suo uomo forte, Aleksandr Lukašenko, presidente bielorusso dal 1994, ci ha messo del suo: schiacciando sul nascere ogni dissenso con un governo autoritario e centralizzato, uniformando l’economia nell’immediato post-Unione Sovietica, osteggiando qualsiasi privatizzazione d’imprese statali e tenendo lontani i grandi investitori stranieri. Per via dell’eredità industriale sovietica, la Bielorussia è rimasta fortemente dipendente dalle altre economie della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), Russia in primis, che resta il suo maggior partner commerciale.
Con un apparato industriale ormai datato, incapace di provvedere alle necessità energetiche interne con le sue modeste riserve di greggio, la capitale Minks resta dipendente dai sussidi energetici di Gazprom (il colosso russo degli idrocarburi) e dall’accesso preferenziale a quel mercato. Durante la crisi finanziaria del 2011, che ha portato a una svalutazione senza precedenti del rublo bielorusso, Minsk è stata costretta a vendere le sue quote di proprietà della Beltransgaz a Gazprom, in cambio di prestiti e sussidi energetici per risollevarsi dalla crisi.
A cementare i già stretti rapporti, nel 1999 Mosca e Minsk hanno dato vita all’Unione Russia-Bielorussia, un’entità sovranazionale e intergovernativa di integrazione politica ed economica che, con il tempo e diversi trattati, si è estesa anche alla cooperazione militare: a gennaio 2014, tanto per dire, il budget allocato dall’Unione per esercitazioni militari congiunte, industria bellica e progetti di sicurezza, è stato pari a 91,5 milioni di dollari.
Pur non immune da saltuarie crisi diplomatiche – nel 2010 e 2013 Gazprom ha sospeso temporaneamente i sussidi a Minsk – l’intesa è andata ulteriormente rinsaldandosi, grazie alla creazione di un’unione doganale tra Russia, Bielorussia e Kazakhstan (2010), che Putin vorrebbe adesso estendere a “Unione Eurasiatica” con l’inclusione di Armenia, Kyrgyzstan e Tajikistan. Crisi ucraina permettendo. (M.P.)

• KAZAHKSTAN–
Il Kazakhstan gode di una crescita sostenuta che ha registrato un +6% nel 2013, ma la sua economia è fortemente dipendente dall’industria estrattiva e dal petrolio, del quale è uno dei maggiori esportatori in Asia e nel resto del mondo. Nonostante le autorità di Astana abbiano messo a punto una politica di diversificazione delle risorse e una modernizzazione delle infrastrutture, di cui il Paese ha urgentemente bisogno, la crescita continua a essere sostenuta quasi esclusivamente dallo sfruttamento delle risorse energetiche.
Del resto, il Kazakhstan dispone del più grande giacimento di petrolio scoperto negli ultimi trent’anni, quello di Kashagan, nel Mar Caspio settentrionale, del cui consorzio fa parte anche l’ENI (con una quota del 16,81%). Tuttavia, le sue potenzialità non sono ancora state sviluppate a causa delle difficili condizioni ambientali e il progetto, che prevedeva l’inizio della produzione lo scorso settembre, ha subito una serie di interruzioni per problemi tecnici. I continui ritardi e incidenti hanno così fatto lievitare i costi del progetto con ingenti perdite sia per le compagnie petrolifere coinvolte sia per il Kazakhstan stesso, sul quale adesso pesano i mancati introiti. Una ricchezza a portata di mano, dunque, ma ancora irraggiungibile.

• UZBEKISTAN–
Sono gas, cotone e oro il patrimonio personale del settantaseienne presidente Islom Karimov, a capo dell’Uzbekistan dal 1990, prima ancora che diventasse una repubblica indipendente nel 1991. Il sistema produttivo del Paese risente infatti dell’eredità sovietica ed è ancora fortemente statalizzato. E, come spesso avviene, al controllo in campo economico corrisponde una più ampia repressione in ambito politico, motivo per cui l’Uzbekistan condivide regolarmente con la Corea del Nord gli ultimi posti delle classifiche mondiali per quanto riguarda democrazia e libertà di stampa (mentre è al top per corruzione). Ma c’è l’altra faccia della medaglia: un PIL in crescita a un ritmo del 7% l’anno, cui contribuiscono principalmente le esportazioni di gas naturale, di cui l’Uzbekistan è il secondo produttore dell’area centro-asiatica, dopo la Russia, con circa 60 miliardi di metri cubi l’anno. Di questi, 15 miliardi arrivano sul mercato degli “stan” limitrofi e soprattutto della Cina, segno che dalla bottom ten alla top twenty mondiale il passo può essere molto, molto breve. (D.S.)

UN’ECONOMIA CHE FILA–

• MONGOLIA
In seguito alla caduta del Muro di Berlino, la Mongolia è passata da un’economia pianificata sotto il regime comunista a un’economia improntata al libero mercato. Tale cambiamento non è avvenuto senza criticità e, negli anni Novanta, la povertà è aumentata esponenzialmente a causa della cessazione degli aiuti statali e dell’accesso gratuito a diversi servizi, tra cui l’istruzione.
Oggi l’economia mongola si regge su due pilastri: le attività agricolo-pastorali, che rappresentano il 15% del PIL e di cui si curano per lo più i nomadi (che costituiscono il 40% della popolazione); e l’industria estrattiva, che si è sviluppata soprattutto negli ultimi anni. La Mongolia, infatti, oltre al petrolio (ancora scarsamente sfruttato) possiede non trascurabili risorse minerali: carbone, rame, oro, argento, ferro e uranio, cui la Russia è particolarmente interessata. Se questo settore ha garantito una crescita economica pari al 17% negli ultimi due anni, anche l’industria tessile ha contribuito alla crescita dell’economia: la Mongolia è diventata così il terzo produttore di cashmere al mondo, con una quota sul totale mondiale del 30% (non è un caso che l’Italia stia incrementando le relazioni commerciali tra i due Paesi proprio in questo settore).
Incuneata tra Cina e Russia, è proprio grazie a questi due partner commerciali giganti che la Mongolia è oggi tra i Paesi a più alto tasso di crescita al mondo e con la prospettiva di un raddoppio del PIL nel lungo periodo (oggi pari a 10,26 miliardi di euro). Di converso, il punto di debolezza del Paese è proprio l’eccessiva dipendenza energetica dalla Russia, il che la rende vulnerabile alle variazioni del prezzo degli idrocarburi. Provenendo il 95% dei ricavati dal petrolio di Mosca, i rapporti bilaterali dei due Paesi – e, inevitabilmente, la dipendenza mongola – sconfinano anche negli altri settori. In primis quello estrattivo, dove negli ultimi anni Ulan Bator ha siglato con Mosca accordi per oltre 7 miliardi di dollari. Mosca si è offerta anche di espandere la rete ferroviaria (la famosa Transiberiana) in cambio delle licenze per lo sfruttamento delle miniere di rame e carbone.
Ciò nonostante, la Mongolia ha tentato di diversificare la propria economia e non si è fermata ai confini, consolidando i rapporti commerciali anche con Giappone, Canada, Australia e Stati Uniti. Allo scopo di aumentare gli investimenti esteri, ad esempio, il Parlamento mongolo ha oggi una legge che regola i diritti degli investitori stranieri e li vincola a investire in qualsiasi settore dove non sia vietato dalla legislazione, a registrare imprese e a rimpatriare gli utili degli investimenti, equiparando tutto ciò alla tutela giuridica dei cittadini mongoli. Inoltre, secondo tale legislazione, gli investimenti non possono essere oggetto di espropriazione o nazionalizzazione.

IL NUOVO CORSO GEORGIANO–
• GEORGIA–
Nel 2006 viene inaugurato l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan: otto pipeline che si diramano per quasi 1.800 chilometri trasportando fino a un milione di barili di petrolio al giorno dal terminal azero di Sangachal, sul Mar Caspio, alle coste mediterranee della Turchia. È lungo queste tubature che si è giocata una delle sfide energetiche più importanti degli ultimi anni. Da una parte il blocco occidentale, titolare dell’oleodotto con in testa la britannica British Petroleum. Dall’altra Mosca, che per scongiurare il sorpasso sul suo oleodotto, il Baku-Novorossijsk, nell’agosto del 2008 ha approfittato dell’ennesimo scontro tra il governo georgiano, allora guidato dal presidente filoccidentale Mikheil Saakashvili, e la regione secessionista dell’Ossezia del Sud. In cinque giorni, le truppe russe hanno così occupato la città di Gori, a soli 90 chilometri dalla capitale Tblisi, tracciando una linea rossa oltre la quale gli interessi strategici occidentali non si sarebbero più potuti spingere.
A sei anni di distanza, la Georgia prova a mettersi alle spalle quel disastroso conflitto, che ha lasciato in eredità un elevato tasso di disoccupazione, un disagio sociale diffuso e un sistema politico in larga parte corrotto, senza peraltro riuscire a contenere le spinte secessioniste non solo dell’Ossezia del Sud ma anche dell’Abkhazia.
Eppure negli ultimi anni la ripresa economica c’è stata. Le aziende attive nel Paese sono circa 60mila (per lo più piccole e medie imprese), anche se per molte di esse rimangono difficoltà ad accedere al credito, a reperire professionalità specializzate e a superare i vincoli del regime fiscale in vigore.
Le elezioni dell’ottobre 2013 sono state vinte dalla coalizione Georgian Dreams, di cui fanno parte il presidente Giorgi Margvelashvili e il premier Irakli Garibashvili, anche se in realtà la regia del nuovo corso georgiano è diretta dal potente miliardario Bidzina Ivanishvili. L’obiettivo è stringere i tempi per firmare al più presto l’accordo di associazione con l’Unione Europea, che porterebbe nel lungo periodo a un aumento di PIL (+4,3%), esportazioni (+12,4%) e importazioni (+7,5%) e a una diminuzione dei prezzi al consumo (0,6%). Badando ovviamente a migliorare i rapporti con Mosca: un vicino troppo ingombrante di cui Tblisi non può non tenere conto. (R.B.)

• CECENIA–
Dalla dichiarazione di indipendenza dalla Russia nel 1991, la Repubblica di Cecenia continua a essere ostaggio delle spinte separatiste dei gruppi islamisti del Caucaso settentrionale e dei traffici illeciti dei signori della guerra locali.
Dal 2007 al potere c’è il primo ministro Ramzan Kadyrov: un passato da leader paramilitare, un presente da dittatore e una passione per il calcio (è presidente della squadra Terek Groznyj). Il tesoro che possiede si chiama petrolio. I giacimenti sono concentrati principalmente nel distretto della capitale Grozny e producono giornalmente circa 4mila tonnellate di greggio. Ciò che però interessa di più a Mosca, che di fatto controlla militarmente buona parte del territorio ceceno, è tutelare due dei suoi oleodotti più strategici, quelli che collegano le riserve del Mar Caspio al terminal di Novorossisk sul Mar Nero. Senza dimenticare le importanti linee stradali e ferroviarie che attraversano la Cecenia e che permettono al commercio russo di raggiungere i mercati dell’Europa dell’Est. C’è poi il sogno del premier Kadyrov, che vuole fare di Grozny una moderna metropoli. Il boom edilizio degli ultimi anni ha prodotto un grande impianto sciistico e una schiera di alberghi a cinque stelle. Difficile però che nel breve periodo il turismo possa diventare una nuova risorsa per l’economia del Paese.


CON GLI OCCHI DELL’ORIENTE–

• IRAN– di Ottorino Restelli
L’ elezione di Hassan Rouhani a settimo presidente dell’Iran nel giugno 2013 ha coinciso con un’evoluzione della strategia della Repubblica Islamica. Da una parte, sono proseguite le esecuzioni degli oppositori (come nel caso del poeta pacifista Hashem Sabaani, arabo-iraniano di Ahwaz e veterano della guerra contro l’Iraq), la condanna degli intellettuali e riformisti (come l’attrice e blogger Pegah Ahangarani, condannata a 18 mesi di reclusione), gli arresti domiciliari (come per Hussein Moussavi e Mehdi Kharroubi) e la chiusura di giornali (come il Bahar daily).
Dall’altra, si è avviato un rilancio dei negoziati sul nucleare (Joint Plan Act, novembre 2013), culminati nell’accordo quadro annunciato a Vienna lo scorso febbraio tra il gruppo P5+1 – dove siedono Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, Stati Uniti e Germania – e il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che prevede controlli in cambio di allentamento e revoca delle sanzioni.
I commentatori attribuiscono questo cambio di strategia all’azione delle sanzioni economiche che stanno stritolando l’economia di Teheran. Ma quali sono state le conseguenze economiche dell’embargo sull’economia iraniana?
Nel 2013 l’allora ministro dell’Economia, Shamseddin Hussein, affermava che le entrate petrolifere della Repubblica Islamica erano diminuite del 50%, portando a 77 miliardi di dollari tale quota per il 2012. In una energy-economy dove il petrolio costituisce 1’80% delle esportazioni e il 60% delle entrate statali, la caduta delle esportazioni – scese a 1 milione di barili al giorno, soprattutto verso Cina e India – ha avuto effetti devastanti sull’occupazione e sui prezzi. Così, il rial nel 2013 ha perso il 50% del proprio valore (37% il tasso d’inflazione ufficiale), mentre la disoccupazione generale ha superato il 12% e quella giovanile il 26%.
A ciò si aggiunga che, durante le due presidenze Ahmadinejiad, il valore delle aree urbane era cresciuto di oltre l’80%, mentre quello delle abitazioni nelle aree medesime si era più che raddoppiato (+220%) e ancor di più era cresciuto il costo degli affitti (+250%), provocando nel settore delle costruzioni una vera e propria bolla dei prezzi, che si è poi tradotta in una scarsità di abitazioni accessibili. Nel 2007, il presidente stesso aveva lanciato il “Mehr Housing Plan”: un piano di edilizia popolare rivolto ai ceti meno abbienti, tradizionale serbatoio di consensi per la teocrazia sciita, che puntava alla costruzione di 1,5 milioni di abitazioni in 17 città iraniane e che aveva lo scopo di calmierare i prezzi e risolvere le tensioni abitative (per inciso, il governo voluto dal presidente Rouhani ha poi bloccato il conferimento di appartamenti a pasdaran e amministratori vicini ad Ahmadinejiad). In realtà, secondo il nuovo ministro dell’economia Ali Tayebnia, il “Mehr Housing Plan” è responsabile di aver alimentato le tensioni inflazionistiche e i gravi problemi di bilancio per la Repubblica.
Secondo il rapporto Iran Sanctions pubblicato a gennaio 2014 dal Congressional Research Service degli Stati Uniti, le sanzioni hanno ridotto del 60% le vendite di petrolio, facendo scendere a 35 miliardi di dollari i ricavi da esportazioni di greggio nell’ultimo anno, rispetto ai 100 miliardi del 2011. Il PIL si è così ridotto del 5% nel 2013.
La produzione auto, tanto per fare un esempio, si è ridotta del 40% rispetto al 2011: le imprese manifatturiere, quando non chiudono, hanno una larga sottoutilizzazione degli impianti e sono costrette a impiegare prodotti cinesi, spesso di mediocre qualità (come freni per le auto in amianto e vernici tossiche), in base all’accordo del 2011 tale per cui il 40% del petrolio esportato in Cina viene pagato in yuan e speso in gran parte per l’acquisto di questi prodotti provenienti da Pechino.
Inoltre, la crescente difficoltà di assicurare i pagamenti cash degli stipendi ai dipendenti dello Stato e l’esplosione dell’inflazione (stimata tra il 50% e il 70%) hanno indotto il nuovo governo a rivedere il sistema di sussidi definito da Ahmadinejiad e a distribuire direttamente beni alimentari ai cittadini. Il programma di aiuti alimentari ha dapprima riguardato i cittadini con un reddito inferiore a 5 milioni di rial al mese (pari a 170 dollari), che ha interessato 4 milioni di persone su una popolazione di 77. Quindi, è stato esteso a oltre 17 milioni di iraniani. Per ricostituire le riserve della Banca Centrale dissanguate dall’embargo, l’Iran ha iniziato a rastrellare oro sui mercati e a esigere in oro anche il pagamento delle esportazioni, come nel caso del gas alla Turchia.
Infine, per quanto riguarda il sistema sanitario nazionale, il rapporto pubblicato dal Global Research del Centre for Research Globalization (ottobre 2013) testimonia il verificarsi di un vero e proprio disastro sanitario. Non solo l’accesso ai più diffusi sistemi diagnostici – come radiografie, TAC, RM – risulta spesso compromesso, ma anche l’uso di esami di laboratorio e di anestetici si rivela quasi impossibile: basti pensare che l’assenza di kit di laboratorio costringe a inviare i campioni di sangue o urine in Turchia. La situazione è ancora peggiore per quanto riguarda i farmaci per la cura di patologie più complesse, come le malattie cardiovascolari e il cancro (ogni anno 85mila nuovi casi di cui 30mila mortali, in crescita per l’impossibilità di accedere a medicine e trattamenti adeguati e con un’età d’incidenza inferiore ai 30 anni).
Il 20 marzo scorso, gli iraniani hanno festeggiato Nowruz (capodanno) in un clima di ristrettezze e disagio, quando non di vera e propria emergenza economica, con bazar semivuoti e vacanze rigorosamente in casa, nella speranza però che il nuovo corso delle relazioni internazionali, testimoniate dalla recenti visite a Teheran di parlamentari e ministri dell’Unione Europea, ripristini al più presto le condizioni di normalità e riavvii la crescita economica del Paese, stimata nelle attuali condizioni dalla Banca Mondiale in un insufficiente +1% nel 2014, +1,8% nel 2015 e +2% nel 2016.