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 2014  aprile 23 Mercoledì calendario

L’ECCENTRICO CLAN DEI PARENTI “AFRO” CHE IMBARAZZA BARACK OBAMA


WASHINGTON
C’è una “Prima Famiglia” nella vita di Barack Obama e una “Seconda Famiglia” dimenticata nella lontananza del tempo, dello spazio, dell’opportunità politica. L’accusa è brutta, almeno molto sgradevole: il primo presidente afroamericano nella storia degli Usa trascura la propria metà “afro” e ignora la famiglia del padre. Se Clinton fu definito «il primo presidente nero con la pelle bianca», il distacco che Obama ha messo fra se stesso e le radici kenyane riesuma il sospetto che lo accompagna da quando conquistò il palcoscenico nazionale: che lui sia «il primo presidente bianco con la pelle nera».
È stata la morte della «Cara Zietta» come lui stesso l’aveva chiamata nelle memorie “I sogni di mio padre”, nello squallore di una casa di riposo di Boston per anziani senza soldi a riaprire il sospetto che delle proprie radici umane e familiari in Africa, Barack si disinteressi. Quando Zeituni Onyango, la sorella del padre, la donna che aveva tenuto insieme la famiglia in Kenya dopo la morte di Barack Hussein Senior in un incidente d’auto, si è spenta a 61 anni all’inizio di aprile, dopo un lungo duello non soltanto con la malattia polmonare ma con le autorità federali, quindi con il governo guidato dal nipotino, per la residenza in Usa, qualche parente era arrivato da lontano, a spese proprie.
Ma il parente più vicino, Obama, a un’ora di volo sul suo Air Force One, aveva preferito restare sul campo di golf. Proprio lo sport, come l’eccezione del grande Tiger Woods ha dimostrato, che resta il più geloso e simbolico dei passatempi per l’America bianca. Il presidente ha mandato una nota di cordoglio standard, come la Casa Bianca invia a dozzine ogni giorno, per defunti che meritino qualche distante attenzione ufficiale. Niente altro. I 250 dollari per la parcella del modestissimo avvocato che aveva patrocinato la pratica per la residenza, non saranno pagati da nessuno.
Ma sarebbe stato troppo tardi per comportarsi diversamente. Una manifestazione di affetto, di vicinanza, di partecipazione filiale o soltanto umana alla vicenda, alla malattia e alla morte di “zietta” avrebbe fatto riaffiorare prepotentemente la storia complicata e spinosa delle “african roots” del presidente. Non perché africane, ma perché proprio la “Second Family” in quel villaggio di Nyang’oma Kogelo tra i baobab, con fratelli e sorelle di padri diversi, cugini di vario grado, è, dal giorno dell’elezione sei anni or sono, un albero dai frutti spesso velenosi. A cominciare dalla matriarca, la nonna novantatreenne, che dichiarò il nipotino Barack «nato in Kenya», in quel villaggio. Un falso, forse un momento di confusione senile, ma che alimentò per mesi la campagna per dichiarare il candidato alla presidenza non eleggibile, in base alla Costituzione che impone la nascita sul suolo Usa. Si può comprendere, anche se forse non perdonare, perché a Obama ora sia rimproverato di non telefonare mai a quella nonna.
Neppure un tentativo di solenne riconoscimento e di riconciliazione transcontinentale è servito a riavvicinare i rami del «baobab» famigliare, come un fratellastro del presidente definì il clan degli Obama a Kogelo, nel Kenya occidenale. Nonna esclusa, per ragioni di età, dodici parenti furono invitati e trasportati a spese dei fondi elettorali del neo eletto (non del contribuente) nella tribuna d’onore per la sfilata inaugurale della elezione, il 20 gennaio del 2009, dove i loro costumi e copricapi tradizionali illuminarono di colori il grigiore ufficiale e i prevedibili abiti degli altri maggiorenti.
Al contrario, quel riconoscimento delle proprie “roots”, delle radici del padre, ha scavato, anziché colmare la fossa fra i due continenti. Mentre Obama cercava di mantenere una garbata, diffidente distanza da uomini e donne con lo stesso nome incontrati una sola volta, ma con una storia troppo diversa, tenuta insieme dal filo di un uomo, Barack Senior, che aveva scaricato brutalmente la madre lasciandola sola con il piccolo Barack jr, per poter davvero convivere, il versante “afro” ha cercato di approfittare al massimo di questa relazione. Il New York Times , che ha crudelmente ma oggettivamente illuminato l’indifferenza del presidente per l’agonia e la morte di “Zietta”, elenca i libri, le memorie, le biografie scritte e pubblicate da fratelli e sorelle, anche se non necessariamente scritti da loro. Ce ne sono in circolazione già quattro, anche se nessuna di queste opere sembra avere raggiunto seri risultati di vendita.
Malik, un fratello, è riuscito a emigrare negli Usa, e a creare una “Obama Foundation” nel Maryland, dunque alle porte della capitale Washington, per generica beneficenza, ma con donatori che hanno creato non poche irritazioni al fratello americano: Malik era un dichiarato ammiratore di Muammar Gheddafi, che aveva contributo generosamente alla fondazione, insieme con il governo dello Yemen, come già lo stesso raìs libico aveva fatto negli anni ‘70 finanziando il fratello del presidente Carter, Billy Bubba, leggendario consumatore di birre, foraggiato proprio da Tripoli come lobbysta.
La zia scomparsa, Zeituni, era approdata in territorio americano nel 2009 con un visto turistico ottenuto all’ambasciata americana di Nairobi e concesso, come tutti i visti turistici, con la precisa condizione di non trasformare il turismo in una residenza permanente. Ma poco dopo essere sbarcata a Boston, “Zietta” aveva prontamente fatto richiesta di carta verde, confidando nell’aiutino dell’autorevole nipote. E dimenticando che mai il presidente avrebbe potuto spingere la pratica per lei senza scatenare accuse di “nepotismo” alla rovescia.
È dunque un rapporto impossibile, quello fra gli Obama americani e gli Obama africani, non alleviato certamente, agli occhi dei parenti d’oltre oceano, dalla coabitazione della suocera del presidente, la madre di Michelle, inquilina in pianta stabile all’ultimo piano della Casa Bianca da ormai quasi sei anni. Ma per lui, conteso nella propria identità fra il Kansas della madre e il Kenya del padre, il problema non è di classiche patologie famigliari. È un problema politico che la propria doppia natura ha creato, e che lo imbarazza tanto quanto gli è giovata. «Lui fa la sua vita, noi facciamo la nostra», ha sentenziato solenne il fratello Malik al funerale della zia, come un’assoluzione riluttante.

Vittorio Zucconi, la Repubblica 23/4/2014