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 2014  marzo 29 Sabato calendario

VENT’ANNI FA MORIVA UNA LEGGENDA SENZA EREDI LUCA CARBONI: PER L’ITALIA SIGNIFICÒ LA LIBERTÀ


Il corpo lo trovò un elettricista, chiamato per installare un antifurto: Kurt Cobain era disteso nella serra di casa sua, a Seattle, estremo Nord Ovest degli Stati Uniti, con un fucile tra le gambe, un biglietto d’addio infilato nella terra di un vaso, un rivolo di sangue vicino alla testa e una dose letale di eroina nelle vene. Era il 10 aprile 1994, aveva 27 anni: l’autopsia stabilì che la morte risaliva, probabilmente, al 5 aprile. A giorni sono esattamente vent’anni, e l’unica vera cerimonia si terrà a Brooklyn, il 10 aprile, quando i Nirvana, il trio che Kurt Cobain fondò e guidò dal 1987 alla morte, entreranno in quell’istituzione molto americana che si chiama Rock and Roll Hall of Fame, un museo-tempio in cui si è accolti e celebrati per chiara fama, vivi o morti, solo a 25 anni dall’uscita del primo disco.
Il primo disco dei Nirvana uscì nel 1989, venticinque anni fa, ma il gruppo e Kurt Cobain fecero storia a partire dagli ultimi mesi del 1991, quando gli Stati Uniti e poi il mondo si innamorarono di questo nuovo suono di chitarra elettrica in arrivo dalla costa ovest degli Usa, di un album (Nevermind, a oggi ha venduto trenta milioni di copie) e di una canzone (Smells Like Teen Spirit) che sembravano poter riassumere in sé gli ultimi trent’anni di musica rock. Nel novembre 1991, nei giorni in cui l’album entrava tra i dieci più venduti d’America, i Nirvana erano in Italia a suonare, a Muggia, Mezzago, Roma e Baricella. Roma a parte, paesi più che piccole città, piccoli locali nei quali all’epoca girava il nuovo rock italiano e l’avanguardia alternativa: due mesi dopo, Kurt e compagni sarebbero finiti al numero 1 della classifica americana, spodestando Michael Jackson.
Fu una svolta improvvisa, totalmente inattesa, che apparve storica già nel momento in cui accadeva: finivano gli Anni Ottanta, si spegnevano le luci colorate del pop e tornava l’urlo oscuro del rock. Ma quel passaggio repentino contribuì anche a uccidere Cobain, che non era in grado di gestire la popolarità. Si rese conto di essere diventato, suo malgrado, ciò che più disprezzava: «Non provo più l’esaltazione di ascoltare e creare musica, così come di leggere e di scrivere, da troppi anni ormai. Non riesco neppure a dire quanto mi senta colpevole per questo», scrisse nel biglietto che trovarono accanto al suo cadavere. «La rabbia adolescenziale ha pagato bene, ora sono vecchio e annoiato», aveva scritto in una canzone uscita poco prima.
Il 3 marzo 1994, a Roma, Kurt Cobain si salvò a malapena da un’overdose di farmaci. «Quando si risvegliò – raccontò poi il medico -– mi disse che era stato un errore. Non gli credetti e lo feci ricoverare in una stanza senza finestre».
«In quel momento nel mondo c’erano tante esperienze interessanti, ma nessuna così connessa con la realtà, con un mondo che esisteva e tuttora esiste e che allora, come un po’ oggi, sembrava dimenticato». Chi parla è Luca Carboni, che nei primi Anni Novanta scriveva le più belle canzoni d’Italia e che da lontano («Mi sentivo più vicino a gruppi più contaminati, Red Hot Chili Peppers e R.E.M.») seguì la breve e intensa parabola dei Nirvana con grande attenzione.
«Sono stati una grande band e alla fine, soprattutto quando passa il tempo, ciò che rimane sono i pezzi, la musica, la scrittura: c’è un sentimento generale che appartiene a una generazione, ma poi c’è una punta che costruisce l’ordigno perfetto, quello che fa esplodere tutto. E in quegli anni l’ordigno perfetto l’hanno costruito loro. E ne hanno pagato le conseguenze: il successo, specialmente quello planetario come il loro, è sempre un gran problema. È chiaro che ti dà piacere essere apprezzato, ma la popolarità può essere anche violenta, ti arriva addosso in modi inaspettati, e nessuno ti può preparare all’urto, e non ti abbandona più. E se sei un puro, come certamente era Kurt Cobain e la tua storia personale e familiare ti indebolisce, è ancora più difficile».