Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 29 Sabato calendario

SHALE GAS, RISORSA USA CHE DIVIDE L’UE


La guerra dello «shale gas» è scoppiata anche nei Paesi Bassi. Il gruppo britannico Cuadrilla Resources ha chiesto la licenza per avviare dei test di perforazione in tre regioni olandesi - Boxtel, Haaren, Noordoostpolder - e il già claudicante governo liberalsocialista è finito sotto assedio. Politici e movimenti verdi-progressisti denunciano l’assenza, nei contratti che si stanno predisponendo, d’una clausola di protezione dell’ambiente, una norma per cui se qualcuno inquina è tenuto a pagare i danni. Ai minimi di consenso nei sondaggi, il premier Mark Rutte sta pensando di fare marcia indentro. O almeno di prendere tempo.
«Tutte le forme di energia comportano controindicazioni», ha ammesso mercoledì a Bruxelles il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Il problema dello shale gas, o gas di scisto, risorsa ottenuta dalla frammentazione delle rocce nei giacimenti non convenzionali di argille, è che numerosi studi lo dicono pericoloso per il pianeta. Il processo di «fracking» avviene con l’iniezione nel sottosuolo di fluidi che solo in parte sono recuperati e trattati. Possono inquinare le falde, è un allarme. Ma esisterebbe anche una correlazione - sulla quale in verità molti scienziati sono scettici - con la possibilità di scatenare terremoti anche in aree normalmente non sismiche.
Mentre in Europa si dibatte, l’America ha cominciato a guadagnare e risparmiare miliardi con lo shale gas di cui è ricca, contribuendo a far sì che i prezzi dell’energia a stelle e strisce siano scesi di due terzi in pochi anni e ora arrivino sino a un quarto di quelli pagati in Europa.
Gli Usa costituiscono un esempio inseguito da numerosi governi e dalle multinazionali elettriche e petrolifere del continente, nei confronti del quale la risposta dell’Ue è stata inevitabilmente compromissoria.
Da noi esistono sensibilità divergenti. Quando in gennaio la Commissione Ue ha messo sul tavolo il pacchetto Clima, il freno a mano tirato dai britannici in tandem coi polacchi ha condotto alla richiesta «del rispetto di principi minimi». L’Europarlamento ha poi bocciato la richiesta di studi di impatto obbligatori. Quindi potrà fare «fracking» chi vuole e senza troppe limitazioni.
Il dossier è tornato d’attualità con la crisi ucraina e con il gelo sulla linea fra Bruxelles e Mosca. Si è ripreso a ricordare la forte dipendenza di alcuni paesi, in particolare nell’ex Oltrecortina, dalle risorse di Gazprom & Co. Si è pertanto riproposta con urgenza la necessità di diversificare il mix energetico. Tanto chiara che persino il presidente Obama lo ha consigliato all’Ue come strategia per limitare le possibili ritorsioni da parte del Cremlino che, ha ribadito ieri il «New York Times», potrebbero avere pesanti ripercussioni sulle società petrolifere globali, sull’Exxon come sull’Eni.
Così facendo, il presidente americano ha riaperto la ferita della rete che non c’è, dell’interconnessione promessa e mai realizzata, principalmente per colpa tedesca. Se fossimo tutti collegati, un’interruzione sui gasdotti orientali potrebbe essere compensata pompando metano dalla Francia o dall’Olanda. Ad esempio.
Uno studio dell’Energy Information Administration americana stima che nell’Ue ci sono riserve di gas di scisto pari a 13.300 miliardi di metri cubi (fanno 30 anni di fabbisogno europeo) e che sono per il 60% in Polonia e Francia. Quest’ultima, però, è stata la prima a proibire in via permanente il «fracking», scelta compiuta anche dai bulgari. La Germania è indecisa, l’Italia non ha lo «shale», mentre Varsavia e Londra sono prive di dubbi: vogliono andare avanti.
Il vicecancelliere tedesco nonché ministro dell’Energia Sigmund Gabriel assicura che «non c’è alcuna alternativa ragionevole all’importazione del gas dalla Russia». Ma un recente studio del Ceps, autorevole think tank bruxellese, rivela invece che è appena il 6% delle risorse Ue a essere legato a Mosca. Poco. «Basterebbe un vero grande mercato per limitare i rischi», è il messaggio. E comunque «progressi sono stati fatti negli ultimi anni quanto a interconnessione e stoccaggio».
Lo «shale» è una possibilità di medio lungo termine, dicono gli esperti. «Però bisogna pensare alle strutture», avverte la cancelliera Merkel, convinta a differenza di Gabriel, che la priorità debba essere «cercare di tagliare i consumi e sviluppare le rinnovabili». Se poi Berlino abbandonasse le remore sulle reti comuni europee il gioco potrebbe essere fatto.