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 2014  marzo 29 Sabato calendario

IL PRIMO MINISTRO NON ARRETRA DINANZI ALLA MINORANZA


Matteo Renzi non arretra neppure di un centimetro rispetto al dissenso della minoranza interna del Pd. La direzione di ieri al Largo del Nazareno ha visto un confronto duro tra il segretario-premier e i principali esponenti delle diverse anime della minoranza (Fassina, Civati, Cuperlo, Pollastrini), ma s’è conclusa con l’approvazione a larghissima maggioranza della relazione del leader (93 si, 8 astenuti, 12 no) e con la nomina, sempre su proposta di Renzi, di due vicesegretari, Guerini e Serracchiani, entrambi molto vicini a lui.
Lo scontro più acceso è stato sul decreto Poletti sul lavoro e sul tema dei rapporti con i sindacati. Renzi ha dovuto confrontarsi con Fassina, che ha sostenuto che il decreto ha un impianto di destra (non a caso Forza Italia lo voterà), e con Pollastrini. Ma ha tenuto il punto, annunciando anche per lunedì il disegno di legge sulla riforma del Senato e del Titolo V, e sollecitando il Parlamento a procedere alla discussione e all’approvazione in tempi stretti.
Al di là dei singoli contenuti dei provvedimenti, la ragione per cui Renzi procede con le sue solite maniere spicce non è né caratteriale, né esclusivamente legata ai risultati positivi di questa prima fase del suo governo, o ai riconoscimenti ricevuti sul piano internazionale nelle ultime settimane (la direzione si svolgeva all’indomani della visita a Roma di Obama e all’apprezzamento manifestato dal presidente americano nei confronti del Capo dello Stato e del presidente del consiglio).
Dati alla mano, i sondaggi di quest’avvio di campagna elettorale per le europee rivelano infatti che il tasso di fiducia in Renzi dell’opinione pubblica cresce o si mantiene alto, ma non si riverbera egualmente sul Pd, che aumenta, ma non allo stesso modo. Ce n’è abbastanza, per dirla con Gentiloni, per evitare di «rompere i c...» al premier, o anche di dar la sensazione di mettergli i bastoni tra le ruote, come ad esempio sta accadendo alla Camera in commissione proprio sul decreto lavoro. Ma è esattamente il punto su cui la minoranza interna non vuol cedere e continua a rivendicare il diritto, per il Pd, di un’elaborazione autonoma e in qualche caso dialettica rispetto ai programmi del governo. Ciò che Renzi, non solo non può permettersi, visti gli impegni sulle riforme presi in Europa, ma neppure vuole, convinto com’è che il Pd, con le sue resistenze, possa rappresentare un peso davanti all’opinione pubblica. E che prendere le distanze dai dubbi e dai rallentamenti che emergono nel dibattito interno, come ha fatto di nuovo ieri in direzione, in questa fase per lui sia diventato perfino strategico.

Matteo Renzi non arretra neppure di un centimetro rispetto al dissenso della minoranza interna del Pd. La direzione di ieri al Largo del Nazareno ha visto un confronto duro tra il segretario-premier e i principali esponenti delle diverse anime della minoranza (Fassina, Civati, Cuperlo, Pollastrini), ma s’è conclusa con l’approvazione a larghissima maggioranza della relazione del leader (93 si, 8 astenuti, 12 no) e con la nomina, sempre su proposta di Renzi, di due vicesegretari, Guerini e Serracchiani, entrambi molto vicini a lui.
Lo scontro più acceso è stato sul decreto Poletti sul lavoro e sul tema dei rapporti con i sindacati. Renzi ha dovuto confrontarsi con Fassina, che ha sostenuto che il decreto ha un impianto di destra (non a caso Forza Italia lo voterà), e con Pollastrini. Ma ha tenuto il punto, annunciando anche per lunedì il disegno di legge sulla riforma del Senato e del Titolo V, e sollecitando il Parlamento a procedere alla discussione e all’approvazione in tempi stretti.
Al di là dei singoli contenuti dei provvedimenti, la ragione per cui Renzi procede con le sue solite maniere spicce non è né caratteriale, né esclusivamente legata ai risultati positivi di questa prima fase del suo governo, o ai riconoscimenti ricevuti sul piano internazionale nelle ultime settimane (la direzione si svolgeva all’indomani della visita a Roma di Obama e all’apprezzamento manifestato dal presidente americano nei confronti del Capo dello Stato e del presidente del consiglio).
Dati alla mano, i sondaggi di quest’avvio di campagna elettorale per le europee rivelano infatti che il tasso di fiducia in Renzi dell’opinione pubblica cresce o si mantiene alto, ma non si riverbera egualmente sul Pd, che aumenta, ma non allo stesso modo. Ce n’è abbastanza, per dirla con Gentiloni, per evitare di «rompere i c...» al premier, o anche di dar la sensazione di mettergli i bastoni tra le ruote, come ad esempio sta accadendo alla Camera in commissione proprio sul decreto lavoro. Ma è esattamente il punto su cui la minoranza interna non vuol cedere e continua a rivendicare il diritto, per il Pd, di un’elaborazione autonoma e in qualche caso dialettica rispetto ai programmi del governo. Ciò che Renzi, non solo non può permettersi, visti gli impegni sulle riforme presi in Europa, ma neppure vuole, convinto com’è che il Pd, con le sue resistenze, possa rappresentare un peso davanti all’opinione pubblica. E che prendere le distanze dai dubbi e dai rallentamenti che emergono nel dibattito interno, come ha fatto di nuovo ieri in direzione, in questa fase per lui sia diventato perfino strategico.

Matteo Renzi non arretra neppure di un centimetro rispetto al dissenso della minoranza interna del Pd. La direzione di ieri al Largo del Nazareno ha visto un confronto duro tra il segretario-premier e i principali esponenti delle diverse anime della minoranza (Fassina, Civati, Cuperlo, Pollastrini), ma s’è conclusa con l’approvazione a larghissima maggioranza della relazione del leader (93 si, 8 astenuti, 12 no) e con la nomina, sempre su proposta di Renzi, di due vicesegretari, Guerini e Serracchiani, entrambi molto vicini a lui.
Lo scontro più acceso è stato sul decreto Poletti sul lavoro e sul tema dei rapporti con i sindacati. Renzi ha dovuto confrontarsi con Fassina, che ha sostenuto che il decreto ha un impianto di destra (non a caso Forza Italia lo voterà), e con Pollastrini. Ma ha tenuto il punto, annunciando anche per lunedì il disegno di legge sulla riforma del Senato e del Titolo V, e sollecitando il Parlamento a procedere alla discussione e all’approvazione in tempi stretti.
Al di là dei singoli contenuti dei provvedimenti, la ragione per cui Renzi procede con le sue solite maniere spicce non è né caratteriale, né esclusivamente legata ai risultati positivi di questa prima fase del suo governo, o ai riconoscimenti ricevuti sul piano internazionale nelle ultime settimane (la direzione si svolgeva all’indomani della visita a Roma di Obama e all’apprezzamento manifestato dal presidente americano nei confronti del Capo dello Stato e del presidente del consiglio).
Dati alla mano, i sondaggi di quest’avvio di campagna elettorale per le europee rivelano infatti che il tasso di fiducia in Renzi dell’opinione pubblica cresce o si mantiene alto, ma non si riverbera egualmente sul Pd, che aumenta, ma non allo stesso modo. Ce n’è abbastanza, per dirla con Gentiloni, per evitare di «rompere i c...» al premier, o anche di dar la sensazione di mettergli i bastoni tra le ruote, come ad esempio sta accadendo alla Camera in commissione proprio sul decreto lavoro. Ma è esattamente il punto su cui la minoranza interna non vuol cedere e continua a rivendicare il diritto, per il Pd, di un’elaborazione autonoma e in qualche caso dialettica rispetto ai programmi del governo. Ciò che Renzi, non solo non può permettersi, visti gli impegni sulle riforme presi in Europa, ma neppure vuole, convinto com’è che il Pd, con le sue resistenze, possa rappresentare un peso davanti all’opinione pubblica. E che prendere le distanze dai dubbi e dai rallentamenti che emergono nel dibattito interno, come ha fatto di nuovo ieri in direzione, in questa fase per lui sia diventato perfino strategico.

Matteo Renzi non arretra neppure di un centimetro rispetto al dissenso della minoranza interna del Pd. La direzione di ieri al Largo del Nazareno ha visto un confronto duro tra il segretario-premier e i principali esponenti delle diverse anime della minoranza (Fassina, Civati, Cuperlo, Pollastrini), ma s’è conclusa con l’approvazione a larghissima maggioranza della relazione del leader (93 si, 8 astenuti, 12 no) e con la nomina, sempre su proposta di Renzi, di due vicesegretari, Guerini e Serracchiani, entrambi molto vicini a lui.
Lo scontro più acceso è stato sul decreto Poletti sul lavoro e sul tema dei rapporti con i sindacati. Renzi ha dovuto confrontarsi con Fassina, che ha sostenuto che il decreto ha un impianto di destra (non a caso Forza Italia lo voterà), e con Pollastrini. Ma ha tenuto il punto, annunciando anche per lunedì il disegno di legge sulla riforma del Senato e del Titolo V, e sollecitando il Parlamento a procedere alla discussione e all’approvazione in tempi stretti.
Al di là dei singoli contenuti dei provvedimenti, la ragione per cui Renzi procede con le sue solite maniere spicce non è né caratteriale, né esclusivamente legata ai risultati positivi di questa prima fase del suo governo, o ai riconoscimenti ricevuti sul piano internazionale nelle ultime settimane (la direzione si svolgeva all’indomani della visita a Roma di Obama e all’apprezzamento manifestato dal presidente americano nei confronti del Capo dello Stato e del presidente del consiglio).
Dati alla mano, i sondaggi di quest’avvio di campagna elettorale per le europee rivelano infatti che il tasso di fiducia in Renzi dell’opinione pubblica cresce o si mantiene alto, ma non si riverbera egualmente sul Pd, che aumenta, ma non allo stesso modo. Ce n’è abbastanza, per dirla con Gentiloni, per evitare di «rompere i c...» al premier, o anche di dar la sensazione di mettergli i bastoni tra le ruote, come ad esempio sta accadendo alla Camera in commissione proprio sul decreto lavoro. Ma è esattamente il punto su cui la minoranza interna non vuol cedere e continua a rivendicare il diritto, per il Pd, di un’elaborazione autonoma e in qualche caso dialettica rispetto ai programmi del governo. Ciò che Renzi, non solo non può permettersi, visti gli impegni sulle riforme presi in Europa, ma neppure vuole, convinto com’è che il Pd, con le sue resistenze, possa rappresentare un peso davanti all’opinione pubblica. E che prendere le distanze dai dubbi e dai rallentamenti che emergono nel dibattito interno, come ha fatto di nuovo ieri in direzione, in questa fase per lui sia diventato perfino strategico.
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