Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 28 Venerdì calendario

CHI può scappa. Dall’inizio dell’anno, capitali per 70 miliardi di dollari hanno lasciato la Russia, più che in tutto il 2013

CHI può scappa. Dall’inizio dell’anno, capitali per 70 miliardi di dollari hanno lasciato la Russia, più che in tutto il 2013. Chi stava pensando di investire in Russia, per il momento, preferisce prender tempo, per paura delle sanzioni. Ma chi aveva affari in dirittura d’arrivo o è già impegnato sul posto non se la sente di fare marcia indietro, si tratti di imprese che si sono conquistate un mercato di esportazione, di industrie che hanno creato fabbriche e infrastrutture, di banche o di illustri pensionati tedeschi o britannici che siedono nei confortevoli consigli di amministrazione degli oligarchi di Mosca. È la zavorra che rende difficile, oggi, all’Europa brandire con più decisione l’arma delle sanzioni. Il mugugno è a bassa voce. Il presidente della Confindustria tedesca, Ulrich Grillo, ha, anzi, dichiarato che «le sanzioni non farebbero bene ai nostri rapporti d’affari, ma il diritto internazionale è per noi più importante di ogni altra cosa». I fatti, però, parlano chiaro: per l’establishment economico europeo, la Russia è ancora “business as usual”. Joe Kaeser, presidente della Siemens, si è sottoposto all’imbarazzante vetrina tv di un incontro con Putin, pur di confermare un incontro che rinsaldasse le decine di affari che il gigante tedesco dell’ingegneria ha in Russia. D’altra parte, i suoi colleghi della Rwe, la seconda compagnia elettrica tedesca, hanno appena intascato 7 miliardi di dollari per aver venduto la loro unità di produzione petrolio-gas ad uno degli oligarchi più amati da Putin, Mikhail Friedman. L’Italia non è da meno: Tronchetti Provera ha appena chiuso un accordo con il colosso petrolifero Rosneft, con cui garantirsi il controllo della Pirelli. Anche un imprenditore come Ulrich Bettermann, quello che ha prestato l’aereo per riportare in occidente il nemico di Putin, Khodorkhovsky, si guarda bene dal rinunciare all’impianto di produzione cavi che sta per aprire a ovest di Mosca. Non è, infatti, un embargo commerciale il vero spauracchio delle imprese europee. Le esportazioni verso la Russia valgono poco più dell’1 per cento del prodotto interno lordo europeo e anche chi è più esposto, come la Germania, supera di poco il 3 per cento del Pil nazionale, una cifra che l’ampio avanzo della bilancia commerciale tedesca consentirebbe di assorbire senza troppi problemi. La media, naturalmente, nasconde situazioni assai diverse. L’Italia, ad esempio, ha un export verso la Russia che vale il 2,57 per cento del Pil. Ma più che la possibilità di esportare e di importare (gas, in particolare), quello che muove gli attori di maggior peso sulla scena economica europea sono gli investimenti: i soldi e le opportunità che hanno radicato in terra russa. Il “Chi é” dell’energia mondiale è presente in forze in Russia. Dall’Artico a Sakhalin, nel Pacifico, Exxon, Bp, Shell hanno investito miliardi di dollari, come attori appena meno importanti, come Eni e Wintershall. Nessuno di loro, per ora, ha fiatato. Paradossalmente, è stata proprio l’Eni, dipinta spesso come la compagnia più vicina ai russi, a prendere le distanze, quando il presidente, Scaroni ha fatto notare che, oggi, il gasdotto SouthStream, che dovrebbe portare il gas russo in Italia, appare una possibilità remota. Ma, fuori dall’energia, anche giganti come General Electric, Siemens, Renault (che controlla AvtoVAZ, il maggior produttore di automobili del Paese) siedono su investimenti massicci che, secondo gli esperti, sono a rischio più delle operazioni commerciali, sia perché, di fatto, inflessibili, sia perché eventuali misure punitive contro Putin sarebbero, probabilmente, anzitutto di natura finanziaria. In questo caso, tuttavia, arriverebbero sotto tiro anche le banche. In generale il sistema bancario europeo è esposto per circa 150 miliardi di dollari, verso debitori e depositanti russi. Attenzione, però: quasi metà di questa esposizione è concentrata in soli tre isituti. Unicredit, Société Générale e l’austriaca Raiffaisenbank. Peraltro, almeno per Unicredit e SocGen, un congelamento degli affari con Mosca non dovrebbe creare problemi di bilancio drammatici. Anche Siemens, piuttosto che Exxon, del resto, non verrebbe travolta da un periodo di guerra fredda economica con il Cremlino. Semplicemente, tutti ne farebbero volentieri a meno. Vale non solo per le aziende, ma anche per gli individui. È il caso dei molti ex politici di spicco, finiti a libro paga delle aziende russe. Ha cominciato Gerhard Schoeder, l’ex cancelliere tedesco, oggi a Gazprom, a sparare sull’ipotesi sanzioni. Ma il partito dei superscettici ha presto reclutato gli “ex” inglesi, tutti Lord, che accompagnano le aziende russe a Londra. Peter Mandelson, ex commissario Ue, ex braccio destro di Tony Blair, è nel consiglio di amministrazione di Sistema, una conglomerata con stretti legami con il Cremlino. David Owen, ex leader del partito socialdemocratico, è consigliere del più ricco dei russi, Alishar Usmanov. Robert Skidelsky, il biografo di Keynes, è nel consiglio di Rusnano Capital. Nessuno dei tre, ha mostrato intenzione di dimettersi.