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 2014  marzo 28 Venerdì calendario

DALL’AMERICA A FIRENZE PASSANDO PER L’IRLANDA COSÌ ANDANDO A RITROSO FINO AI “FIGLI DI GERALD” ABBIAMO RITROVATO KENNEDY “L’ITALIANO”

DALL’AMERICA A FIRENZE PASSANDO PER L’IRLANDA COSÌ ANDANDO A RITROSO FINO AI “FIGLI DI GERALD” ABBIAMO RITROVATO KENNEDY “L’ITALIANO” –

Il vino era di famiglia. Sulla tavola di John Fitzgerald Kennedy, alla Casa Bianca, casse di Chianti classico arrivavano direttamente dalla Toscana, inviate dai Gherardini. Una casata di antica nobiltà feudale, di sangue caldo e mente fredda. Un lignaggio ribelle, sempre con la spada in mano. Mai nessuna stirpe subì più confische o esili nella Toscana medioevale, mai nessuna pianse più morti. Quella dei Gherardini è una storia di sconfitte, di ricchezze costruite e perse, di mari attraversati, di eroi abbattuti. Di nuovi inizi. Una storia in cui si può salpare da mercenari e diventare Viceré. Si può sbarcare da braccianti e forgiarsi un destino da presidenti.
Nella storia di questa famiglia e delle sue lunghe ramificazioni, una gruppo si stacca da Firenze per conquistare una fetta d’Irlanda, dove fonda la dinastia dei Fitz Gerald. Secoli dopo, non più per onore ma per fame, la stirpe prende il largo dall’isola verso la promessa di un Nuovo Mondo, sbarca in America e ne espugna la Presidenza. Infilando una cattolica “F” nel JFK della Nuova Frontiera, l’uomo dal sangue caldo e dalla mente fredda, lo spirito militante stritolato dai meccanismi della Storia, che il 12 ottobre 1962 rivela alla platea del Columbus Day: «I Fitzgerald hanno origini italiane. Non ho mai avuto il coraggio di rivelarlo, lo faccio adesso».
Una stessa famiglia, una stessa radice medioevale aggrappata alle terre della Valdelsa italiana: i Gherardini - i Fitzgerald - i Kennedy. Un triangolo Italia - Irlanda - Stati Uniti che si chiude sulle rive del lago di Como, a villa Serbelloni, il 30 giugno 1963, quando il presidente americano – prima di iniziare la visita ufficiale in Italia e inconsapevolmente vicino alla morte – si concede qualche ora di tregua, incontrando in segreto un Gherardini, ultimo discendente dell’antica casata. Cui – pur da lontano – anche lui appartiene.
La chiave del mistero? In Galles
Per ricostruire il cammino dei Gherardini toscani che sbarcano in Irlanda, ne ripartono come Fitzgerald e approdano a Boston, bisogna armarsi di pazienza (storiografica), tirar fuori l’atlante e cercare il Galles. Perché la chiave di tutto è lì.
Proprio negli annali del Galles a un certo punto del Medioevo compare misteriosamente il cognome Geraldines – di origine non gallese né inglese – nella persona di Otho, padre di un Gerald, nonno di un Maurice. Quest’ultimo è il vero protagonista del racconto, il capostipite della dinastia: è lui che lascia il Galles con l’intento di conquistare l’Irlanda nel 1169, al soldo del re inglese Enrico II. È lui che scavalca il mare e approda sull’isola insieme ad altri 200 cavalieri, sopravvive ai corpo a corpo truculenti chiamati battaglie, riceve terre e villaggi come compenso. Una volta insediato nei nuovi feudi, Maurice abbandona il latineggiante Geraldines per il gaelico Fitz Gerald (figlio di Gerald, il padre, appunto). Il seme è gettato, negli anni germoglierà, lasciando centinaia di eredi. Maurice infatti è sbarcato e combatte in Irlanda insieme ai figli Gerald e Thomas. Saranno loro a dare origine rispettivamente al ramo principale dei conti Fitzgerald di Kildare-duchi di Leinster, installati a est, e a quello cadetto dei conti Fitgzgerald di Desmond, stanziati nel Munster, verso ovest. Ma se lo sbarco in Irlanda di Maurice, Gerald e Thomas Geraldines è accertato, il punto controverso per gli storici è un altro: chi sono questi Geraldines? E come ci sono arrivati, in Galles? Passo indietro.

Figli o fratelli?
Come sempre, non tutti sono d’accordo. Soprattutto se si tratta di rovistare intorno al primo millennio, quando difficilmente si andava dal notaio per certificare una rivoluzione o fondare un regno. Secondo una prima teoria – sposata soprattutto dalla storiografia anglosassone – i Geraldines approdano in Galles nel 1066 al seguito di Guglielmo il Conquistatore, durante l’invasione normanna dell’Inghilterra. Fra le truppe mercenarie radunate da Guglielmo sulle spiagge francesi, c’è anche un certo cavaliere Otho, fuoriuscito della famiglia toscana dei Gherardini di Firenze, il cui cognome – pressoché impronunciabile per gli anglo-normanni – si trasforma in Geraldines. Otho attraversa il mare e si insedia in Galles con la discendenza. Che da lì si muoverà per la conquista dell’Irlanda, cento anni dopo.
La maggior parte delle cronache italiane (e francesi) avanza invece una seconda ipotesi, sfumata dai secoli in leggenda: Maurice, Gerald e Thomas non sono padre e figli, bensì tre bellicosi fratelli fuggiti da Firenze e sbarcati in Irlanda. Sempre della famiglia Gherardini dal cognome impronunciabile, sempre insieme a Enrico II durante l’invasione dell’isola del 1169, e sempre partendo dal Galles. Dove però non si sono mai stabiliti, e dove si trovano solo perché lì c’è il grosso delle truppe concentrato per l’assalto finale…

Feudatari bellicosi a caccia di un regno
Sia come sia, in entrambe le versioni la traccia lasciata dalla storia parte dai tumulti della Firenze medioevale, dalle lotte fra Guelfi e Ghibellini. Da questa stirpe irrequieta, i Gherardini, feudatari della Valdelsa, colonne dell’antica aristocrazia repubblicana, ma anche fomentatori di disordini, decisi a non inchinarsi ai tempi che cambiano. Non cedono i tre fratelli fuoriusciti, che preferiscono l’esilio all’inurbamento, la spada al compromesso. Rappresentanti d’uno spirito cavalleresco in lenta estinzione, non sono d’accordo sul nuovo modo di reggere la città da parte di abili mercanti e ricchi banchieri. Non condividono la visione mercantile che negli anni porterà alla fortuna di Firenze, alle Arti, alle Corporazioni. Al Rinascimento. Sono Ghibellini nell’animo, e pronti a pagarne il prezzo. Firenze li combatte con ardore, infatti la partenza dei fratelli è solo l’inizio di un’epurazione progressiva. Cent’anni più tardi, è il grosso della stirpe a finire esiliato a Verona, insieme a Dante Alighieri, e per gli stessi motivi. È il 1302, trionfano i Guelfi Neri, papa Bonifacio VIII allunga le sue trame su Firenze. Stavolta è davvero la fine per l’aristocrazia del contado non disposta a piegarsi. È la fine dell’epoca feudale. Dopo una disperata resistenza, il castello dei Gherardini di Montagliati, fra Siena e Firenze, è raso al suolo, i beni confiscati. Via Gherardini diventa via Lambertesca, della potente casata viene cancellato tutto, gli stemmi insieme alla memoria. Un ostracismo cittadino dai lunghi tentacoli, anche se ammantati di folclore: ancora oggi, a distanza di sette secoli, a Panzano in Chianti si celebra annualmente l’impiccagione di un Gherardini, coinvolto in una lite con i signorotti del luogo…

In Irlanda i Fitzgerald ci lasciano la testa
Intanto, mentre il grosso della stirpe Gherardini è alle prese con l’esilio e si inventa un nuovo inizio a Verona, i Geraldines divenuti Fitzgerald si stanno dando da fare in Irlanda. Sbarcati sull’isola per “anglicizzarla”, la governano per un po’ in nome degli inglesi, arrivando a conquistarne il titolo di Viceré. Per poi convertirsi in campioni della sua indipendenza, soprattutto quando il potere anglosassone cambia pelle e innalza il vessillo protestante. Cattolici nel midollo, di quelli vicini all’altare e lontani dalla sacrestia, molti Fitzgerald finiscono imprigionati o condannati a morte. Litigano con Enrico VIII e ci lasciano la testa. Il ramo cadetto di Desmond addirittura si estingue quando il 15° conte viene assassinato nel 1583: una morte su cui si stende l’ombra di Elisabetta I. Ma per secoli i Fitzgerald di Desmond colonizzano le contee di Cork, Kerry e Limerick. In una mutevole gerarchia di regni maggiori e minori, di ricchezze costruite e perse, innalzano castelli o semplici fattorie, li popolano di figli legittimi e non. Lungo il cammino lasciano a Limerick un rosario di nomi: John of Callan, John Sursainge, John Fitzgerald detto anche Fitz Robert. Da questa stirpe verso la metà del ’700 viene al mondo James Fitzgerald, quadrisnonno da parte di madre del presidente Kennedy. Non si sa molto di lui, solo che sposa Hannah Mac Carthy nel 1793, nella parrocchia di Knockaney. Vivono a Lough Gur, contea di Limerick. Un posto qualsiasi nella sconfinata brughiera del Midwest irlandese, da cui non è difficile immaginare una fuga per fame negli anni neri delle grandi carestie ottocentesche. È quello che fa il bracciante Thomas Fitgerald, bisnonno materno di Kennedy: incalzato dalla miseria, si imbarca su un bastimento alla volta di New York nel 1850. Come Otho, come Maurice prima di lui, ancora una volta scavalca il mare per un nuovo inizio. In valigia ha una Bibbia, la stessa su cui un giorno il (bis)nipote giurerà davanti a tutta la nazione diventandone il 35° Presidente. Ed è proprio qui, nel posto qualsiasi del Midwest irlandese abbandonato dagli avi, che il 28 giugno 1963 si ferma John Fitzgerald Kennedy. Lo scopo? Ricevere dal sindaco una medaglia e incontrare 46 concittadini di Lough Gur, accomunati al presidente americano da almeno due cose: il cognome e qualche monomero di Dna. È un celebre viaggio, quello fatto in Europa da Kennedy quattro mesi prima della morte, lo stesso che lo porta a Berlino, Londra, Dublino e infine in Italia, con sosta privata a Como e visita ufficiale a Roma e Napoli. Lo stesso che si concluderà con una promessa non mantenuta: «Ci vediamo di nuovo a primavera». Una missione politica, certo, ma anche qualcosa di più: una ricerca delle radici, un omaggio alla storia degli antenati di cui si sente epigono. Col senno di poi, anche un commiato.

Kennedy al mondo: siamo italiani
È Kennedy in persona a dichiarare al mondo le proprie lontane origine italiane: lo fa il 12 ottobre 1962, in New Jersey, durante le celebrazioni per il Columbus Day. Riferendosi al nonno materno, John Francis Fitzgerald detto “Honey Fitz”, sindaco di Boston e deputato al Congresso, Kennedy dice testualmente alla platea italo-americana: «Mio nonno ci diceva sempre che i Fitzgerald sono in realtà italiani, e discendono dai Geraldines, che vennero da Venezia: non ho mai avuto il coraggio di rivendicare questa affermazione, lo farò oggi qui …». A parte lo scambio di Firenze con Venezia, ciò che emerge dalle parole di Kennedy è la forza della tradizione, quel “mio nonno ci diceva sempre” costruito sulla memoria, e orgoglioso di ricomporne la trama. In effetti, più che la credenza di una lontana parentela, quella che lega i Fitzgerald d’Irlanda ai Gherardini di Toscana sembra quasi una fede. Che da fonte orale si fa presto strada verso documentazione storica.
Fin dai primi del ’400, innumerevoli testi confermano i regolari rapporti fra le due famiglie, basati sull’evocazione di un antico legame di sangue. Ci sono le cronache di Ottaviano di Rossellino Gherardini, che scrive della visita a Firenze di Maurice Fitzgerald nel 1413, agostiniano della Cattedrale di Artefort (“disse che gli antichi suoi erano del medesimo sangue de Gherardini di Firenze, e che desiderava conoscere qualcuno di quella casa...”); c’è la lettera di Betto de’ Gherardini a James Fitzgerald conte di Desmond per raccomandargli il figlio Giovanni in partenza per l’isola nel 1440 (“…anche in Ibernia, la più remota delle isole, ove per merito vostro i nostri fiorentini sono oggi dominatori”); c’è il testo conservato dal canonico Lorenzo Gherardini in cui Gerard Fitzgerald conte di Kildare scrive nel 1507 che “…sommamente ci sono state grate le vostre lettere, o uomini prestantissimi, per le quali abbiamo potuto intendere il fervore del vostro amore fraterno… vi avviserò brievemente di essere di vostra famiglia in queste parti…”. E via nei secoli, di lettera in lettera. In un tessersi di rapporti che si dispiegano fino a oggi.

Un incontro storico ogni 30 anni
Rientrata dall’esilio solo a metà del secolo scorso, la schiatta dei Gherardini vive oggi a Firenze una vita appartata. Ogni trenta anni circa, celebra insieme ai cugini irlandesi una sorta di adunata storico-rievocativa, le cui radici affondano nel tempo. L’ultimo incontro ha luogo nel 1983 sulle rive dell’Arno. La delegazione Fitzgerald è capeggiata da Gerald, 8° duca di Leinster, ultimo discendente – all’epoca – del ramo superstite, quello dei Kildare-Leinster; la rappresentanza Gherardini è guidata dalla Contessa Cinzia Maria, insieme ai fratelli Maria Teresa e Gian Raffaello. Decisamente più fantasiosi nei nomi dei parenti d’oltremanica. «Sono incontri particolari», confessa Jacopo Gherardini, figlio di Cinzia, «gente che non si è mai vista prima, si chiama per nome e si abbraccia con una familiarità incomprensibile, eppure autentica». Proprio come se si conoscesse da mille anni. Nell’83 tiene banco la questione irlandese: forte è l’idea di una qualche complicità fra cattolici per contribuire alla soluzione del problema. C’è anche una richiesta di aiuto per la causa, che i cugini italiani prendono in considerazione, memori forse di quando la famiglia sosteneva Ciro Menotti e il Risorgimento italiano. Dall’incontro dell’83 nasce l’ambizione di fare qualcosa di più, di unire le forze per generare cambiamento. Alla fine degli Anni 90 il conte Gian Raffaello fonda la “Fitzgerald Foundation of Florence”, con sede a New York, organizzazione no profit tesa a coinvolgere le famiglie Gherardini, Fitzgerald e Kennedy in un progetto storico sull’emigrazione di italiani e irlandesi in America. Il disegno non decolla, e della Foundation rimane oggi solo qualche flebile traccia su Internet. Ma l’idea di raccogliere sfide, di continuare a lottare per un’altra concezione di società, per speranze che rimangono ancora tutte da realizzare, sembra inscritta nei cromosomi della stirpe. Due anni fa Kerry Kennedy impianta a Firenze il suo Centro per i diritti umani, la Fondazione “Robert F. Kennedy” in onore del padre, abbattuto a Los Angeles mentre era in corsa verso una visione riformista della presidenza. In quell’uomo, falciato sui gradini della Storia ancora una volta si iscrive tutta l’imperfetta parabola della famiglia: quella di una stirpe di mente fredda e sangue caldo, sempre pronta a ricominciare, a prendere forza da errori e debolezze, a battersi per ciò che è degno di essere fatto. E anche a pagarne il prezzo.