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 2014  marzo 24 Lunedì calendario

DROGA, POLITICA E FUMETTO: LE GUERRE DI GIPI


[Gianni Pacinotti]

Anche la notorietà nel campo del fumetto è relativa”, dice. Gipi è Gianni Pacinotti, ha cinquant’anni, pisano, è il primo fumettista che potrebbe vincere il premio Strega. Manca l’ufficialità, ma da mesi c’è una comunità che spinge il suo Unastoria, pubblicato da Co-conino Press – Fandango alla candidatura. Non per épater le bourgeois, ma perché Unastoria è un romanzo, che parla anche per acquerelli e tratti nervosi di penna Bic. Seduto a un bar dei Parioli, a Roma, Gipi sembra aver smaltito da tempo quello straniamento da notorietà che gli arrivò con un’intevista alle Invasioni Barbariche di Daria Bignardi, di cui poi ha curato la sigla. Con una barba grigia che lo invecchia, Gipi sorride con quel misto di serenità e sofferenza di tutti i suoi personaggi: “Mi era andata via la vena”, cinque anni fa. Dopo La mia vita disegnata male si era bloccato, troppo autobiografico, troppo successo, poi ha fatto teatro, un film ed è tornato al fumetto. Che presenta in giro per l’Italia: “Mi pace incontrare i lettori, è bellino. Ma ripeto sempre le stesse cose. Mi sento una truffa umana”.
I suoi libri sono sempre sofferti, Unastoria parla di separazioni, di crolli, di ospedali psichiatrici, di guerra. Come reagiscono i lettori?
Unastoria è un libro che parla della sterilità. Negli incontri c’è un momento in cui questa cosa della sterilità gliela tiro sul muso: spiego che non posso avere figli e vanno tutti in paranoia. Ma ci tengo a parlarne, non ho il pudore, non me l’hanno fatto. Ho un terribile desiderio di comunione, anche d’affetto, temo. I lettori restano pietrificati, ma ho avuto molti riscontri di persone con lo stesso problema. Quando ho parlato con i medici mi sono successe cose contrarie alla mia cultura, mi sono sentito fuori dalla natura e da lì è nato il libro. Ma l’ho capito dopo, quando l’ho finito pensavo non avesse alcun senso. Ero convinto di aver messo la pietra tombale sul mio lavoro.
Vive tutto in maniera così serena?
No. Ci sono cose che prendo meglio, come l’uscita di Dark Soul II per PS3.
Non sembra il tipo da videogiochi.
I videogiochi sono una mia droga da sempre. Attingo tutte le idee per il lavoro dalle scemenze totali. Ieri ho chiesto alla mia donna: “Posso passarci la giornata come se fossi uno delle medie?”. Mi succede lo stesso su Facebook: ore e ore a litigare con tutti. Dopo lavoro bene.
Chi legge i suoi libri si chiede sempre: ma sta davvero raccontando la sua vita?
Le cose che dico le penso sinceramente, ma il modo in cui le racconto è una costruzione di spontaneità. Ho imparato che per parlare davanti a trecento persone e non rompergli il cazzo devi trovare un ritmo, un modo di parlare diverso. In Unastoria speravo che non ci fosse niente di mio, anche perché il mio libro precedente, La mia vita disegnata male, era tutto personale. Dopo non ero più riuscito a fare niente.
Perché nei suoi fumetti c’è sempre una guerra?
É una passione che mi viene dai racconti che faceva mio padre, erano l’epica familiare: quando sei giovane, hai 20-25 anni, la tua amata rimane sotto le bombe, vai a rubare, i tedeschi ti sparano, allora capisci che uomo sei davvero.
E se non c’è la guerra come si fa a capirlo?
Tossicodipendenza. Io ho fatto così.
Che famiglia era la sua?
Borghesia abbastanza ricca, un negozio in centro, non ci mancava niente.
E quindi si è cercato la sua guerra.
Immagino di sì. Per due motivi. Il primo che sono finito a fare le scuole in un quartiere molto povero della città. Mia madre è matta e mi levò dalla scuola dei ricchi per mandarmi tra i disgraziati . Tutti i miei amici, i ragazzini con cui sono cresciuto, erano di estrazione opposta alla mia. Io li amavo. C’era un fascino fisico: io con queste mie manine del cazzo e quelli con dita così. Volevo essere come loro.
E ci è riuscito?
Non ci puoi mai riuscire davvero. E’ diverso fare una cosa perché la vuoi fare o perché non hai scampo. Se è solo una questione di volontà resti comunque nel firmamento delle mezze seghe, perché non sei neppure riuscito ad accettare la tua vera condizione, e se va male sei salvi. Quando sono finito in galera avevo due avvocati, gli altri no.
In galera?
Mi hanno trovato in un campo di Marijuana. Ma non era mia, passeggiavo. La mia famiglia è stata meravigliosa. Mio padre aveva l’idea che quando sei giovane fai cazzate. Mi soprannominava TDC.
TDC?
Testa di cazzo. E aveva ragione. Il fatto che qualcuno che ti ama sa che sarai una testa di cazzo è una grossa dimostrazione d’affetto.
Poi cosa è cambiato?
Mi sono bastati pochi giorni in galera per capire che non ci volevo tornare.. Io sono sempre stato fortunato, anche con le droghe, mi sono fermato un attimo prima.
Anche quelli intorno a lei sono stati fortunati?
No, tanti non ci sono più. Sono l’unico la cui vita ha preso una buona piega.
Sono le storie e i personaggi che racconta in Appunti per una storia di guerra.
Sì, ma noi non avevamo la guerra. Solo un senso di vuoto totale.
E con Appunti per una storia di guerra , nel 2007, cambia tutto: premio ad Angouleme, l’Oscar del fumetto. E va ad abitare in Francia: il sogno di ogni fumettista.
Sì, sono andato a Parigi e ci sono rimasto per amore di una francese. Facevo una vita molto bella: se sei uno di provincia, l’idea che ti puoi permettere una casa a Parigi ti dà l’idea che non sei un totale coglione. E poi ti rispettano: qua se fai fumetti in Italia non sei nessuno. E c’era il giro dei fumettisti italiani in Francia: Igort, Manuele Fior, Luigi Critone. Era bellino. Ma troppo comodo.
Quando ha deciso di tornare?
Dopo tre anni e mezzo. Non stavo più con la bimba francese, tornai in Italia, stetti qui un mese a fare la sigla per le Invasioni barbariche e quando rientrai a Parigi non mi piaceva più. Chiamai un camion e caricai tutto.
Poi c’è stato il film: L’ultimo terrestre. Che cosa resta di quell’esperienza da regista, celebrato a Venezia ma con poco riscontro di pubblico?
Tutti quelli che hanno lavorato con me resteranno nel mio cuore, tutti, a cominciare da Domenico Procacci, il produttore, che mi ha dato la libertà di fare quello che volevo.
Difficile imparare a fare il regista?
Se è tutta la vita che lavori con immagini, inquadrature e ritmo, il grosso è fatto. Non volevo fare l’artistoide, ho fatto un film strampalato ma molto a modino. Io ero convinto di aver fatto un film minuscolo... Però, dopo 15 minuti di applausi tutti in piedi a Venezia e le paginate sui giornali, qualcosa mi aspettavo. Invece al cinema non c’è andato nessuno.
É’ vero che lei non legge fumetti o è una posa?
Il mio amico Roberto Recchioni della Bonelli mi ha mandato uno scatolone di roba, voleva convincermi a fare un Dylan Dog. L’ho aperto dopo due mesi ma ancora non ho letto nulla. La verità è che non ho leggo niente. E Dylan Dog non lo posso fare, ho letto le specifiche su Wikipedia: cioè, suona il clarinetto! E mi dà noia com’è vestito, camicia rossa e giacca nera, con le Clarks, potrei vomitare. Ma il problema sono io, ho un gusto di merda.
Un fumetto che ha letto nella sua vita che le è piaciuto ci sarà?
Uno su tutti: Maus di Art Spiegelman. Quando tratti il tema intrattabile, racconti l’irraccontabile. Finisco di leggere piangendo a dirotto e mi dico: Boia, il fumetto è un’arma potentissima. Non avrei mai pensato di lavorare su temi personali se non avessi letto Maus. E ho fatto Esterno Notte.
Esterno Notte è il suo primo libro della “fase due”, quella seria, dopo i fumetti su riviste come Blue.
É successo qualcosa alla seconda pagina, Avevo cominciato raccontando roba non mia, volevo addirittura scrivere del-l’11 settembre. Ma sento nella testa la voce di questo mio ex conoscente, che nel libro chiamo Faccia, che mi sgridava e mi diceva: Ma di che cazzo stati parlando? Te, pisano, dell’11 settembre? Non sai niente di niente, parla di me. Parla solo di quello che conosci davvero e, forse, non avrai la posa.
Poi c’è stata una parentesi di satira politica, le strisce su Internazionale.
Ho smesso perché mi succedeva una cosa che non mi piaceva. Mi indignavo a comando. La satira politica è una roba che fai per quelli che la pensano come te. Il massimo complimento che ti fanno è “Hai detto proprio quello che pensavo io”.
La politica non le interessa?
Non mi interessa raccontarla. Io penso che le mie scelte di racconto personale sono tutte politiche è solo che non identifico la politica nella divisione tra fazioni. Non credo che la questione in Italia stia in Parlamento. La questione è la vanità. Te dirai: che cazzo c’entra la vanità?
Appunto.
Siamo cresciuti in una società strutturata sulla vanità, dagli anni Ottanta in poi. Se vuoi fare una azione politica devi guardarti dentro, oltre la vanità: se prendi Alessandro Di Battista dei Cinque stelle e lo scarti come una Golia, dentro c’è Maria De Filippi. E la cosa terribile è che lui non se ne rende conto. Che bene puoi fare al Paese se non riesci a staccare lo sguardo da te stesso? Succede anche al Movimento Cinque Stelle, a monte delle buone intenzioni c’è una divisione tra noi e loro che non potrebbe esistere senza il desiderio di percepire se stessi sopra ogni cosa.
Ci va a votare?
Sì, certo, sempre col cazzo girato ma ci vado. Ho votato Pd, perché sono pazzo, perché sono toscano, perché la Toscana è amministrata bene e l’ospedale di Pontedera ha salvato la vita a mia sorella. Anche se io rifiuto ogni appartenenza, non mi è mai piaciuto neppure che mi dicessero di essere collega di qualcuno. Mio nonno era massone: chiesero a mio padre di prendere il suo posto ma preferiva andare a caccia col cane.
Uno stile di vita che ha ereditato?
Nella mia famiglia non crediamo alla genetica, per scelta politica. Ma il rifiuto del potere per me è la base per essere libero; per questo non voglio mai stare nelle giurie, ho detto di no anche a Venezia. Ma sono sicuro che ci sono quelli che riescono a fare i giurati senza perdere l’anima.
Twitter @stefanofeltri