Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 24 Lunedì calendario

SORPRESA LEHMAN, IN EUROPA NON C’È BUCO DALLA LIQUIDAZIONE UN SURPLUS DI 5 MILIARDI


La domanda che ricorre da cinque anni e mezzo a questa parte è sempre la stessa: era proprio inevitabile lasciar fallire la Lehman Brothers? Le ricostruzioni sul famoso week end di settembre del 2008, che portò il lunedì 15 alla richiesta di protezione dai creditori per la Lehman Brothers Holding Inc, sono ricche di dettagli e di retroscena. Ma ora è emerso un punto fermo che si inserisce nel dibattito con prepotenza. Il 5 marzo scorso Tony Lomas, il partner di Price Waterhouse Cooper (PwC), che dal settembre 2008 gestisce la procedura di fallimento della Lehman Brothers International Europe (LBIE), ha dichiarato che le banche, gli hedge fund e i gestori dei fondi recupereranno il 100% della liquidità che detenevano presso la filiale europea della banca d’affari americana. E inoltre, anche dopo aver pagato tutti i creditori non garantiti, nel bilancio della LBIE resterà un surplus di 5 miliardi sterline (8,4 miliardi di dollari circa). Un fatto che a prima vista appare abbastanza incredibile se si tiene conto che la procedura della Lehman Brothers Holding Inc, cioè la capogruppo americana, ha portato sinora al rimborso del 27% dei suoi debiti, percentuale che forse aumenterà fino al 40%. Dunque, in Europa il crac si sta rivelando meno traumatico del previsto: PwC restituirà in totale 40 miliardi di sterline ai creditori di LBIE, di cui 23 miliardi ai trust che si sono inseriti al passivo e circa 16 miliardi ai quasi 3400 creditori non garantiti. I 5 miliardi di avanzo verranno distribuiti alla fine di quest’anno se i creditori approveranno un accordo che PwC presenterà a breve.
Ragionando a mente fredda su questi dati viene da domandarsi seriamente se era il caso, quel lunedì 15 settembre 2008, non impiegare soldi pubblici per salvare la Lehman Brothers, provocando così la più grave crisi finanziaria della storia che si è poi trasferita in forma cruenta all’economia reale determinando la più profonda recessione dal ’29 a oggi. Quando si trovava sull’orlo del burrone Lehman aveva in bilancio 639 miliardi di dollari di assets, 613 miliardi di passività e circa 30 miliardi di patrimonio. In pratica la banca “girava” con una leva di circa 20 volte e le sue 7 mila entità legali sparse in più di 40 paesi del mondo avevano rapporti finanziari stretti con banche di tutti i tipi, emittenti privati, hedge funds, fondi sovranazionali, fondi di mercato monetario e compagnie assicurative. Non era dunque difficile prevedere, in caso di fallimento, un effetto domino planetario e una stretta della liquidità su tutti i fronti. Ma in quel frangente Hank Paulson, il potente segretario del Tesoro americano, Tim Geithner, allora presidente della Fed di New York, insieme al capo della Fed Ben Bernanke, decisero di non intervenire e di lasciar fare al mercato. Sei mesi prima gli stessi personaggi avevano salvato la Bear Stearns facendola acquisire da Jp Morgan e solo il week end precedente il 15 settembre sempre loro avevano organizzato la nazionalizzazione dei due giganti dei mutui, Fannie Mae e Freddy Mac.
Non stupisce quindi che sia lo stesso Lomas, cioè il commissario liquidatore, a buttare il sasso nello stagno: «LBIE non era insolvente dal punto di vista patrimoniale, ma sotto il profilo del cash flow poiché la sua casa madre negli Stati Uniti collassò. Il braccio Uk della Lehman aveva 3 miliardi di dollari (1,8 miliardi sterline) di pagamenti da fare la mattina del collasso ma non aveva cash a disposizione». E come mai una filiale di quelle dimensioni si trovava a secco di denaro? Semplice, perché il venerdì precedente, cioè il 12 settembre, la casa madre newyorkese “spazzò” via 3 miliardi di sterline dai conti della controllata inglese nel disperato tentativo di evitare la bancarotta. Che poi arrivò lo stesso, ma quella “pulizia” dei conti trascinò nel gorgo anche la più sana branch europea. «Ricordo che i manager europei della Lehman, di cui facevo parte, erano tutti sconvolti poiché la capogruppo europea della banca raccoglieva soldi in diversi paesi del Vecchio Continente, tra cui la Germania e l’Italia, con bond garantiti dalla casa madre. E poi depositava la liquidità su conti correnti a cui New York aveva accesso in quanto entità che consolidava il gruppo. Se quei 3 miliardi di sterline non fossero stati spazzati il venerdì 12, la LBIE non avrebbe dovuto chiedere la protezione dei creditori», spiega Ruggero Magnoni, il banchiere che negli anni ’80 portò la Lehman in Italia e che nel 2008 era vice presidente della capogruppo inglese e della controllata italiana.
Ma questa, ormai, è storia. Ora si tratta di vedere come il surplus di 5 miliardi di sterline fatto emergere da Lomas possa rappresentare un evento da cui imparare per eventuali salvataggi di banche in futuro. Si è vista con la recente crisi bancaria a Cipro debuttare la formula del “bail in”, che prevede la partecipazione dei possessori di bond e anche dei correntisti all’eventuale decurtazione dovuta a un fallimento bancario. Ma come spiega ancora Lomas, in questi casi è più importante concentrarsi sul problema della liquidità piuttosto che sullo stato patrimoniale. «Il caso LBIE offre un interessante esempio ai regolatori e alle banche centrali che oggi stanno sviluppando piani di “bail in” per risolvere problemi di banche “too big to fail”. Mentre con il “bail in” si intende risolvere problemi di insolvenza patrimoniale, l’esperienza di PwC nel trattare il caso LBIE dimostra chiaramente la fortissima necessità di supportare la liquidità di una banca, soprattutto quando questa ha alti volumi, grandi valori e complessi contratti in essere, nell’imminenza di un fallimento ».
La PwC staccherà una parcella da circa un miliardo di sterline per il suo lavoro di recupero dell’attivo, che ha comportato lo scioglimento di derivati e contratti complessi con una procedura che rischia di durare ancora a lungo. Tuttavia è abbastanza evidente che un conto è fare questo mestiere essendo un’azienda in bonis, un altro sotto le forche caudine della procedura fallimentare. «Quando dichiari default le regole dell’ISDA sui titoli derivati dicono che puoi accelerare l’uscita attraverso delle aste sui prezzi degli asset sottostanti - osserva Magnoni -. Con la Lehman sotto procedura le banche concorrenti hanno cominciato a offrire prezzi stracciati per i suoi asset e così facendo si è aperto un buco più grande di quello originario che poteva essere evitato semplicemente svalutando una parte dei titoli illiquidi che erano in bilancio. Forse si sarebbe dimezzato il patrimonio, da 30 a 15 miliardi, ma con il default e la procedura ISDA la situazione della Lehman si è aggravata a vantaggio delle banche concorrenti».
Tutto ciò, infine, fa sorgere un dubbio, già più volte evocato da diversi commentatori. Paulson veniva dalla Goldman Sachs, di cui la Lehman era il principale concorrente. Goldman è stata autorizzata dalla Fed a diventare banca commerciale con i conseguenti benefici in termini di accesso alla liquidità, mentre a Lehman fu negata questa possibilità. Inoltre nelle settimane successive al tracollo Lehman il Tesoro decise di salvare la Aig con 80 miliardi di soldi pubblici, il colosso assicurativo che aveva circa 10 miliardi di debiti nei confronti della Goldman Sachs. Inoltre nell’anno più nero, il 2009, i bilanci delle principali banche sopravvissute al cataclisma hanno segnato pesanti perdite, tranne Goldman Sachs che è riuscita a chiudere in attivo. Possibile che in quel frangente non si sia compreso che buttare a mare una banca delle dimensioni della Lehman Brothers con 158 anni di storia alle spalle avrebbe provocato pesantissime ricadute sull’economia mondiale e un’impennata dei tassi di disoccupazione?