Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 24 Lunedì calendario

ROMA —

Sarebbe già custodito nell’archivio della Procura di Roma come notizia priva di riscontri affidabili l’ultimo mistero del caso Moro, o presunto tale. Una storia che comincia con una lettera anonima datata 2009 e finisce con un ex poliziotto che si lamenta, oggi, di non aver potuto indagare come voleva. L’ispettore Enrico Rossi, in pensione nonostante l’età relativamente giovane, rivela all’agenzia Ansa di aver seguito la pista di due agenti dei servizi segreti presenti in via Mario Fani, il 16 marzo 1978 al momento del sequestro del presidente della Dc, a bordo di una moto Honda «per proteggere le Brigate rosse da ogni disturbo»; Rossi sostiene di essere arrivato a un passo dalla loro identificazione, ma ogni sua richiesta fu osteggiata, col risultato di aver perso un’occasione.
Una versione che viene smentita da altre fonti, secondo le quali l’indagine venne regolarmente svolta e la Digos di Torino (ufficio nel quale Rossi ha lavorato per un periodo) riferì alla Procura di Torino i risultati raggiunti: al di là di qualche suggestione non c’erano elementi per sorreggere l’ipotesi dei due agenti segreti sulla moto. I magistrati torinesi trasmisero il fascicolo per competenza alla Procura di Roma, che provvide ad archiviare la vicenda per assenza di riscontri. E oggi che l’ispettore Rossi riapre il caso attraverso un pubblico annuncio, i due eventuali protagonisti sono morti entrambi.
Il primo — autore dell’anonimo da cui cinque anni fa scaturì l’indagine — sarebbe stato ucciso dal cancro sei mesi prima dell’invio della lettera; l’ha scritto lui stesso, spiegando di aver «passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto». Poi la confessione: «La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere». Il colonnello Guglielmi (morto anche lui) era un ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare, che non ha mai dato una spiegazione plausibile del suo transito nelle vicinanze di via Fani, intorno alle 9 del mattino, mentre Moro veniva rapito dai brigatisti. E di una moto Honda sul luogo dell’agguato s’è parlato fin da quel giorno perché un testimone, l’ingegner Antonio Marini, disse di averla vista con due uomini a bordo, una dei quali gli sparò addosso senza colpirlo.
Chi fossero i centauri non s’è mai scoperto. I terroristi hanno sempre negato di aver utilizzato una moto nell’operazione; per un periodo qualcuno ha sostenuto che sopra ci fossero due estremisti di sinistra che, avvisati del sequestro, erano andati a vedere; qualcun altro collegò la Honda alla presenza (sostenuta da un pentito ma mai confermata) di affiliati alla ‘ndrangheta. Fino alla confessione del sedicente agente segreto. Che invitava i giornalisti a cui spedì la lettera anonima a identificare l’altro passeggero: «Sta a voi decidere di saperne di più».
Lo scritto arrivò alla polizia, e ora l’ex ispettore Rossi spiega di aver svolto accertamenti nonostante le difficoltà incontrate ad ogni richiesta e istanza, evidentemente frapposte dai suoi superiori. Nonostante ciò, lui riuscì a individuare l’altro possibile motociclista, e nella casa dell’ex moglie — afferma — trovò due pistole, una delle quali «poggiata o vicino a una copia cellofanata dell’edizione straordinaria de la Repubblica col titolo “Moro rapito dalle Br”». Arma di fabbricazione cecoslovacca sulla quale Rossi avrebbe voluto fare delle perizie, «ma ciò non accadde». Poi lui se ne andò dalla polizia, col rammarico di «una grande occasione» persa. Poco dopo venne a sapere che anche l’uomo sul quale avrebbe voluto continuare indagare era morto. Da allora, agosto 2012, ha taciuto, fino alla scelta di parlare «per il semplice rispetto che si deve ai morti».
Il problema è che quella che nel racconto dell’ex poliziotto appare come una sorta di indagine personale svolta a dispetto delle istituzioni, sarebbe invece una regolare inchiesta svolta dalla polizia giudiziaria sotto l’egida di tre Procure: quella in provincia di Cuneo dove furono svolti i primi accertamenti, poi Torino e infine Roma. La mancanza di conferme (soprattutto all’ipotesi di collegamenti tra il secondo motociclista e i servizi segreti) e l’asserita impossibilità di trovarne altre avrebbe convinto investigatori e magistrati a chiudere il caso. Almeno fino a oggi.
Gio. Bia.