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 2014  febbraio 24 Lunedì calendario

«BASTA CON LE ÉLITE ARTERIOSCLEROTIZZATE MA NON VANNO ROTTAMATI TUTTI I VECCHI»


Professor Giuliano Amato, Renzi indica nella lotta alla burocrazia «la madre di tutte le battaglie». Gli uomini a lui più vicini mettono sotto accusa l’intero establishment italiano. Il quale, dicono, considera il nuovo premier come un «barbaro».
«A me non è sembrato proprio che lo sia».
Ma la storia di Renzi è tutta dentro un fenomeno non solo italiano: la rivolta contro le élite.
«Esistono élite innovative, che portano innovazione, ed élite arteriosclerotizzate, che ostacolano l’innovazione. Renzi non deve fare la guerra alle élite, ma alle élite arteriosclerotizzate. Abbiamo bisogno di specialisti dell’innovazione che ci aiutino a cambiare. Altrimenti si ricade in quella che proprio sul Corriere abbiamo definito “la sindrome dell’uno di noi”».
L’alta burocrazia e tutta la macchina dello Stato sono viste sempre più come un blocco ostile alla crescita e al ricambio. Non crede?
«Trovo interessante che si ponga oggi come questione da risolvere il rapporto tra la politica e l’establishment burocratico. All’estero mi hanno fatto notare: quando parlate di riforme di struttura, puntate l’occhio sempre e solo sul mercato del lavoro; ma la prima questione italiana sono gli apparati amministrativi, e le esternalità negative che generano».
Appunto .
«Ma la battaglia contro la burocrazia può essere una delle tante battaglie retoriche contro un facile nemico. Non dimentichiamoci che la burocrazia, proprio per la regolarità delle sue norme, venne ritenuta da Max Weber l’espressione necessaria della razionalità dello Stato rispetto all’arbitrio, al carisma, alle varietà delle tradizioni che prima di essa esistevano. È significativo però che lo stesso Weber nei suoi ultimi anni, prima di morire ancora giovane di febbre spagnola, parlò della burocrazia come di “macchina senz’anima”, “spirito coagulato”. Lui stesso coglieva nella burocrazia l’entropia cui era soggetta, perdendo di vista il fine per cui sono state create le norme, pensando all’autotutela dei propri interessi piuttosto che alla tutela degli interessi per cui viene mantenuta dalla società».
È quello che accade in Italia: la burocrazia che si autoalimenta.
«Sì, ci sono momenti in cui di queste malattie della burocrazia si risente in modo particolare. L’Italia oggi attraversa uno di quei momenti. Ma ci sono anche momenti in cui la burocrazia di cui si dispone viene vissuta come strumento delle innovazioni che si vogliono introdurre. Pensi al New Deal, all’importanza che ebbero gli apparati nel realizzare le riforme impostate nei cento giorni. Pensiamo a noi stessi, alle grandi figure tra il politico e il burocratico che trasformarono l’Italia nei primi decenni del Novecento».
A chi pensa?
«Ad Alberto Beneduce: figura tecnica che riformò tutto il rapporto tra Stato ed economia; l’uomo dell’Iri, del Crediop, dell’Imi e, insieme con altri, della riforma della Banca d’Italia. Penso a figure come Arrigo Serpieri, che dà un assetto nuovo alla nostra agricoltura, e come Oscar Sinigaglia, primo presidente dell’Ilva, poi della Finsider. Ancora pochi anni prima, però, mentre Giolitti sta cercando di trasformare l’Italia ancora gretta nell’Italia che riconosce gli scioperi e i diritti sociali, un uomo come Salvemini fa una sparata contro “l’albero mortifero della burocrazia, lenta, complicatissima, non rispondente affatto ai bisogni delle popolazioni perché risponde esclusivamente ai propri bisogni”».
Pare il ritratto dell’Italia di oggi.
«Oggi l’Italia deve cambiare e percepisce come allora che la burocrazia, anziché veicolo di cambiamento, è un freno. Già negli Anni 50 Peter Drucker intuisce che, in un mondo che si sta globalizzando, quei grandi conglomerati burocratici che sono gli apparati pubblici e gli stessi apparati delle imprese sono destinati ad andare a sbattere, e occorrono organizzazioni più flessibili, capaci di mettere alla prova tutte le nuove professionalità di cui si può disporre. Da qui la domanda se debbano cambiare le regole o le persone e la loro cultura. Sono vere entrambe le cose: le regole alimentano una vecchia cultura; ma senza nuove persone e una nuova cultura, le vecchie regole prevalgono».
Mi spiace riportarla da Peter Drucker a Luca Lotti...
Per arrivare all’attualità serve ancora un passaggio. Il reinventing governement del tandem Clinton e Gore, che avevano capito la lezione di Drucker, fu un grande piano di riorganizzazione del personale pubblico volto a cambiare le professionalità, e a portare non le procedure ma gli obiettivi al centro dell’azione pubblica».
Perché da noi non è accaduto?
«Perché negli ultimi decenni le figure tecniche sono scomparse dall’amministrazione pubblica. Fino agli anni 50 e 60 esistono ruoli tecnici che fanno capo in particolare ai ministeri più operativi: Lavori pubblici, Trasporti, Agricoltura. Questo personale tecnico va in pensione e non viene sostituito. Prevale il laureato in giurisprudenza, con una media cultura in diritto, che è la figura tipica per la quale la preoccupazione di non avere problemi con la Corte dei conti è naturalmente prevalente sulla preoccupazione di raggiungere il risultato dell’azione pubblica. Facciamo anche noi tentativi di reinventing governement ...».
Ad esempio?
«Nei primi anni 80 Giorgio La Malfa da ministro del Bilancio introduce l’analisi costi-benefici per la valutazione degli investimenti pubblici. Pochi anni dopo Mario Sarcinelli, grande direttore generale del Tesoro, fa passare una legge per assumere giovani con nuove professionalità, come budget e management del debito, di cui l’Italia aveva bisogno. È la stagione in cui il Tesoro si rinnova, in cui arrivano Draghi e Bini-Smaghi. Ci si rende conto che il controllo di ciò che fa lo Stato non può essere solo giuridico, e che la Corte dei conti deve essere formata anche da economisti».
Oggi nella Corte dei conti gli economisti si contano sulle dita di una mano.
«È così. Lo sforzo maggiore lo fa Franco Bassanini, con le leggi di fine anni 90 che introducono il controllo gestionale e il controllo strategico. È l’intervento riformatore più esplicitamente derivato dal modello di Clinton e Gore. Loro però ebbero otto anni, durante i quali lavorarono anche sul personale. Bassanini ebbe solo due anni: cambiò le regole, non il personale; e le nuove regole vennero assorbite dalle vecchie».
Ora è arrivata la crisi del debito, e la spending review.
«E lo Stato non riesce a dotarsi di nuove professionalità. Per spendere il meno possibile fa il blocco del turn-over, trattiene finché morte non li separi coloro che non gli servono, e chiude la porta a coloro che gli servirebbero. Dove operano dirigenti nuovi, portatori di un nuovo spirito, l’amministrazione riesce a funzionare. Non va cancellato tutto, non vanno eliminati tutti. Ci sono molte persone disponibili a cambiare. Se ne mandino via diecimila che non servono, e se ne mettano mille nei punti giusti: giovani che siano fattori di cambiamento».
Il ricambio non è solo un fatto anagrafico, quindi.
«Deve cambiare non solo l’età, ma anche la formazione. Non insegniamo più diritto e basta: l’analisi economica è ingrediente essenziale della formazione del giovane giurista. Il medico non studia più solo medicina, ma le scienze della salute, che implicano la conoscenza del funzionamento delle strutture sanitarie. Abbiamo straordinari sovrintendenti, ma i Beni culturali hanno uno spaventoso bisogno di manager di Beni culturali; non necessariamente chi ha gestito un McDonald’s riesce a esserlo, ma difficilmente può esserlo un bravo archeologo».
Dario Nardella ha indicato tra i “poteri costituiti” che esercitano un freno all’innovazione, o un’influenza eccessiva sul sistema, anche la Banca d’Italia. Lei che ne pensa?
«Anche se il sistema bancario va tutto in direzione europea, da noi la esercita perché è diventata l’ultima scuola che è rimasta. Io ho grande stima delle persone che escono dalla Banca d’Italia, in genere hanno una preparazione economica superiore; ma considero non felice il destino di un Paese che ha come unica scuola di formazione la sua banca centrale. Noi avevamo avuto le partecipazioni statali come grandi scuole di formazione. Io sono tra coloro che ha contribuito alla liquidazione dell’Iri, e non ne sono pentito; ma certo perdemmo un patrimonio positivo di formazione».
Come trova Renzi? Che effetto le fa vedere a Palazzo Chigi, dove lei è stato due volte, un “ragazzo” di 39 anni?
«Al ringiovanimento dell’Italia credo moltissimo. Mi auguro che sia così. Ormai sono chiuso in convento, faccio il giudice costituzionale, non mi occupo di politica; ma quando ho visto in tv confrontarsi per le primarie del Pd tre giovani di cui il più vecchio aveva 50 anni, da italiano ho provato d’istinto un senso di soddisfazione».
L’hanno chiamata rottamazione.
«Be’, non sono perché vengano rottamati tutti i vecchi. Un minimo di spirito di autodifesa lo dovrò pure avere... Sono un ultrasettantenne, ma sono ancora meglio di tanti cinquantenni, sul campo».
Si riferisce al tennis?
«Ovviamente. Il segreto è giocare con avversari più forti di te. C’è sempre qualcosa da imparare».
C’è anche chi esce di scena precocemente. Letta è stato trattato in modo ingeneroso?
«Proprio perché ha 47 anni, Enrico Letta ha un grande futuro davanti. Di questo sono sicuro».