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 2014  febbraio 24 Lunedì calendario

LA SCELTA DI ALESSANDRO AGO DELLA BILANCIA NELLA DINASTY DELLA FAMIGLIA BENETTON


Milano Essere figli di Luciano Benetton e crescere a Treviso negli anni settanta non dev’essere stato facile. Mauro il primogenito, ha abdicato al ruolo di delfino della seconda generazione di una delle famiglie più ricche e amate d’Italia. Peso che è ricaduto sulle spalle di Alessandro, che con senso del dovere e un pizzico d’orgoglio veneto, ha raccolto il testimone di sfida con la stessa disciplina con cui si dedica allo sport. Chi lo conosce bene dice che non è un caso che sia intimo amico di Marina Berlusconi, forse essere “figli di” è un’esperienza da condividere con altri che l’hanno vissuta sulla pelle. Il rampollo di famiglia studia all’università di Boston, prosegue con un master a Harvard e inizia la sua carriera nella divisione fusioni e acquisizioni di Goldman Sachs. Dopo essersi fatto le ossa in una delle maggiori banche d’affari Usa, nel 1992 fonda la 21Investimenti, pensando già al XXI secolo. Alessandro conclude qualche buon affare nel private equity e si cala nella logica del “compra-investiestrai valore” e individua il momento giusto per rivendere. Nel maggio 2012 quanto viene nominato presidente della Benetton, la prima cosa che annuncia è di aver comprato il 2% di Brunello Cucinelli, griffe che la famiglia veneta conosce da tempo e che si appresta a sbarcare sul mercato. Certo si tratta di un ottimo investimento, ma non di una priorità: in quei giorni la Benetton Group è in ginocchio sotto il peso della
crisi e sta per lasciare la Borsa con l’idea che il rilancio (o per meglio dire una profonda ristrutturazione) sarà più facile da realizzare dentro le mura di Villa Minelli che sotto i riflettori di Piazza Affari. La scelta di ritirare Benetton dalla Borsa, che Alessandro caldeggia con i familiari, per la dinasty veneta è un ottimo investimento finanziario: l’offerta lanciata sul mercato valutava il gruppo 760 milioni (tenendo conto delle azioni proprie), meno del costo storico degli immobili che nel prospetto d’Opa del 2012 sono definiti «strumentali» al business dell’abbigliamento, e che nel 2014 stanno per essere scorporati e valorizzati in una divisione a parte. Ma grazie al delisting dopo 25 anni di quotazione, la famiglia ci guadagna anche sotto il profilo dell’immagine: i tagli e i licenziamenti indispensabili per la Benetton Group non suscitano i clamori che invece in questi mesi hanno travolto altre belle aziende italiane come la Indesit dei Merloni. Ed è Alessandro che ingaggia Boston Consulting per realizzare un’analisi della Benetton Group, la quale conclude che per meglio valorizzare la società bisogna dividerla in tre rami e concentrare le energie solo sulla parte commerciale e creativa dei marchi Sisley e Benetton, magari insieme a un partner capace di aiutare l’azienda a rinnovare il suo modello di business. Nell’analizzare lo stato dell’arte, Alessandro è stato più lucido di fratelli, zii e cugini, ma come dimostra l’epilogo del mancato rilancio di Playlife, fare l’imprenditore è un’altra storia. A dire la verità anche suo padre Luciano da imprenditore a un certo punto ha mancato di lungimiranza: la sua azienda era un colosso quando la Inditex di Amancio Ortega non esisteva, oggi a parti invertite il gruppo italiano fattura in un anno meno di quanto Zara genera di profitti. Ortega oltre a inventare il modello del fast fashionha insegnato al così detto “pronto moda” una lezione unica: il marketing conta meno del prodotto perché Zara, senza pubblicità e senza un logo, è diventato comunque un marchio globale. I Benetton invece hanno fallito sulla distribuzione, e quando il mondo investiva sui negozi diretti hanno continuano ad affidarsi alla rete in franchising, e hanno dato alla comunicazione e al marketing un peso specifico preponderante rispetto al resto del business. Una filosofia, quella basata all’immagine e la comunicazione, che Luciano ha impresso all’azienda e a coloro che lo circondavano. L’ex presidente della Benetton Group, da genio qual è, ha sempre goduto del consenso di un imperatore in quella che invece era una repubblica familiare. Così anche chi, come il fratello Gilberto, a volte non condivideva le sue scelte, sulla Benetton Group ha sempre abdicato. Per gli affari, invece, Luciano non ha avuto il fiuto di suo figlio Alessandro: fu il primo a cui le banche proposero di rilevare Gucci dal fallimento, ma si rifiutò perché il marchio era “appannato”, così come fu il primo a cui si rivolse Leonardo Del Vecchio quando cercava un brand per i suoi occhiali e un socio per la Luxottica. Con il senno di poi, si dirà, è facile criticare. Ma la parabola di Benetton, uno dei marchi più famosi e amati al mondo - nonostante o grazie alla sua comunicazione choc - è la dimostrazione di quanto l’imprenditoria italiana fatta di intuito, fantasia e genialità a volte necessita di grigi manager, pianificazione, controllo della distribuzione per essere capace di durare nel tempo. In questa primavera, Alessandro compirà cinquant’anni e dovrà decidere se presiedere alla profonda trasformazione di cui l’azienda ha bisogno, oppure prendere le distanze e ritagliarsi un ruolo da azionista. Qualunque sia la scelta, ci saranno ripercussioni sulla sua persona, sulla sua famiglia e sul gruppo che porta il suo nome. Andarsene dopo aver provato a invertire la rotta in tempi di burrasca, sarebbe un po’ come abbandonare la nave da capitano, prima che affondi. Restare a guardare altri gestire l’azienda, facendo da tramite con la sua famiglia su una serie di scelte che rischia di spaccare i Benetton e anche la società, è ugualmente un alto prezzo da pagare. Con responsabilità e diligenza Alessandro scioglierà le riserve a maggio: presiedere o non presiedere al taglio del cordone ombelicale con la Benetton, questo è il dilemma che affligge anche i suoi parenti. Se da una parte non c’è nessuno della seconda generazione pronto a farsi avanti, tant’è che nessuno oltre lui ha mai ricevuto deleghe operative sulle partecipate di Edizione Holding, dall’altra non tutti sono convinti della necessità che un Benetton debba restare accanto al timoniere. Una volta che Alessandro avrà maturato la sua decisione e che la famiglia l’avrà condivisa tirando le fila, sarà più facile trovare una squadra di manager e di partner industriali, con cui portare avanti il percorso di turnaround. Tanti amministratori si sono avvicendati alla guida della Benetton, ma nessuno ha mai avuto carta bianca. Ora invece per guidare l’azienda fuori dalle secche, la famiglia avrebbe selezionato il curriculum di Bruno Salzer, ex numero uno di Hugo Boss nell’era Marzotto. Ai tempi in cui l’amministratore delegato decise di lanciare con successo la collezione donna del marchio di abbigliamento maschile, tra Salzer e la dinasty c’era però uno snodo di raccordo importante che passava da Antonio Favrin, uomo di fiducia ma esterno alla famiglia. Per un manager ambizioso come Salzer raccogliere la sfida di Benetton è la stessa opportunità che ha avuto Marchionne quando nel 2003 gli fu affidata la guida di Fiat. Ma senza il supporto e la fiducia della famiglia azionista, nessun amministratore può portare avanti un simile percorso di risanamento. E proprio per questo, ora più che mai è necessario che i Benetton siano uniti e facciano squadra, perché l’azienda che hanno creato e di cui possiedono il 100% del capitale, non è più solo un loro patrimonio.