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 2014  febbraio 23 Domenica calendario

MAILER E QUELLA SUA ARTE DI LITIGARE CON LE DONNE


Sono cambiati gli scrittori americani. I vecchi leoni ormai sepolti come Mailer, Styron, Jones, Hemingway e Cheever erano anime tormentate che bevevano, si drogavano, andavano in guerra, andavano a donne e facevano a cazzotti, ma scrivevano libri ribollenti di energia che facevano girare la testa ai lettori. La generazione che li ha sostituiti ha messo gli alcolici e le sigarette sotto chiave, beve acqua minerale, ha imparato a scrivere nelle pettinate colonie per artisti e vive a un tiro di schioppo dalle costose università dove insegna corsi di scrittura creativa. Molti sono medi, alcuni sono bravi, tutti sono secchioni.
È la prima cosa che viene in mente leggendo la nuova biografia Norman Mailer: a double life (Simon & Schuster), in cui J. Michael Lennon racconta la storia di un mostro di energia e protagonismo che si è battuto nel Pacifico e nei bar di New York, ha sposato sei donne e ne ha accoltellata una, ha avuto nove figli e una carriera politica abortita, ha scritto una valanga di romanzi diseguali, saggi controversi, alcuni straordinari pezzi di New Journalism e varie pessime poesie, ed è stato il primo intellettuale ad abusare dei media mettendosi i guantoni ogni volta che c’era da attaccare in tv una qualche convenzione. A volte era brillante, spesso ubriaco. Come quando nel ’71 dopo uno scambio di battute al vetriolo col suo arcinemico Gore Vidal in un talk show di Dick Cavett che ha fatto epoca, se l’è presa con l’amabile conduttore: «E lei perché non legge le sue domande?», indicandogli un foglio di appunti sul tavolo. «E lei perché non prende quel foglio, lo piega, e se lo mette dove non batte il sole?», gli rispose esasperato Cavett, con una battuta che ancora gira su YouTube.

Oggi, se salta all’occhio un capitolo in questa nuova biografia, è quello su Mailer e le donne. Non per l’harem di mogli e i 56 riferimenti nell’indice alla voce «infedeltà». O per il clamoroso episodio dell’accoltellamento della seconda moglie Adele Morales durante una lite a un party, ubriachi fradici tutti. Ma piuttosto per il modo generoso in cui Mailer si è battuto quando è diventato il nemico numero uno del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta.
Esponente della controcultura pre-femminista e sbruffone, si era cacciato nei guai da solo quando nel 1959 in Pubblicità per me stesso aveva scritto di avere apprezzato i primi libri di Mary McCarthy e di Carson McCuller — più tardi avrebbe aggiunto Joan Didion, Iris Murdoch e Erica Jong — ma di trovare la narrativa femminile illeggibile. «Al rischio di farmi alcune dozzine di devote nemiche a vita» aveva scritto con un clamoroso errore di valutazione, «trovo gli effluvi emanati dall’inchiostro delle donne sempre esili, vecchiotti, lesbicamente psicotici, zoppi, sgradevoli, alla moda, barocchi, maquillé o brillanti e nati morti». E aveva concluso che «un buon romanziere non può fare a meno di avere almeno un po’ di palle». Perse la metà dei suoi lettori.
La resa dei conti sarebbe arrivata nel 1971, quando accettò l’invito della rivista «Harper’s» a scrivere un saggio in cui rispondeva al Movimento di liberazione delle donne, opponendosi alle idee di Betty Friedan che ne La mistica della femminilità aveva sostenuto l’assenza di differenze biologiche tra i sessi. Una tesi sposata subito dall’omosessuale Gore Vidal, il quale in una feroce recensione sulla «New York Review of Books» scrisse che Il prigioniero del sesso — il saggio di Mailer su «Harper’s» — aveva lo stesso appeal di «tre giorni di flusso mestruale». Nella famosa resa dei conti alla Town Hall di New York nel 1971 — rimasta negli annali come «Town Bloody Hall» — contro Mailer, unico uomo sul palco, c’erano quattro intellettuali femministe tra cui Germaine Greer; e in platea Susan Sontag, Cynthia Ozick e Betty Friedan.
«Quella sera mi sono venuti i capelli bianchi», disse Mailer. Intelligente, bella e sexy, la giovane autrice dell’Eunuco femmina Germaine Greer lo attaccò in pubblico e flirtò con lui in privato. Portarsi a letto Mailer dopo il dibattito faceva parte del gioco. Ma il poveraccio era a pezzi. Finì in un litigio e in un niente di fatto. Lo sbruffone che per amore della battuta aveva detto in tv a un Orson Wells sottomesso: «Ma dai, Orson, lo sai anche tu che le donne sono bestiacce che andrebbero tenute in gabbia», non riusciva a credere che una battuta potesse adombrare ciò che aveva scritto nei suoi romanzi. «Ho passato tutta la mia vita a scrivere di uomini e donne e dei loro complicati rapporti», si sarebbe sfogato in un’intervista. «E ora le femministe stanno uccidendo il mio conto in banca, il mio ego e la mia reputazione».
Per carità: Mailer era un macho fatto e finito e se l’era andata a cercare. Ma non sembra un caso che Joan Didion e Joyce Carol Oates, le uniche a difenderlo la sera del «Town Bloody Hall», siano anche quelle che come autrici hanno resistito al tempo. Che cosa ci dice Mailer: a double life sul mondo di oggi? Che gli argomenti del Movimento delle donne degli anni Sessanta e Settanta sono stati assimilati e superati. Che il maschilismo continua imperterrito in forme più subdole. Che ovunque le donne continuano a essere meno pagate e più ostacolate nella carriera. Che in America la political correctness ha ottenuto importanti risultati nella difesa delle minoranze, ma ha messo fuori legge il senso dell’umorismo. E che in Italia la cultura del maschio medio è attestata a livelli da bunga bunga.
Lasciatecelo dire: meglio uno come Mailer che sbagliava clamorosamente ma era capace di pentirsi e di non sottrarsi al confronto. Soprattutto, meglio una battutaccia che l’ipocrisia del maschilismo mascherato. Quando a una cena a casa di Lillian Hellman in onore della coppia di guru letterari Lionel e Diana Trilling, Mailer, giovane scrittore agli esordi che aveva bisogno della loro approvazione, si rivolse a Diana Trilling dicendo «E che mi dici di te, f...a intelligente», la sua vicina sobbalzò sulla sedia. «Di certo attirò la mia attenzione» avrebbe scritto la Trilling nelle sue memorie. «Diventammo subito amici». Altri tempi. Livia Manera