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 2014  febbraio 23 Domenica calendario

I MINISTRI (QUASI) MARZIANI E LA CERIMONIA DELLA FRUGALIT


Arrivano con l’espressione stupita. È come se i marziani non fossero loro, ma tutti quelli attorno. Dietro a un nastro rosso che delimita il francobollo di piazza riservato, dal reggimento dei giornalisti si allungano le mani con taccuini, penne e microfoni; i cameramen si accendono in duelli a colpi d’obiettivo per guadagnare lo spazio vitale, e i fotografi paiono comparse del cinema, e smitragliano chiamando i ministri a destra e a sinistra, a favore di inquadratura. Quelli talvolta si bloccano, accennano un passo all’indietro; hanno l’aria di chi svoltato l’angolo si sia trovato davanti al plotone d’esecuzione; trasecolano, fanno due occhi così. «Prima si giura e poi si parla», dice per esempio Roberta Pinotti, pedinata già per qualche centinaio di metri dai cronisti più zelanti. Altri al contrario prendono il passo del corazziere, specie i più scafati alla Dario Franceschini, e tirano dritto verso l’ingresso del Quirinale. Hanno in comune che arrivano tutti a piedi - frugalité - anche le signore coi tacchi a sfidare le insidie dei sampietrini. Noialtri si scherza: avranno tutti parcheggiato a cento metri da qui. Ci immaginiamo una sfida di giovinezza esibita: Matteo arriverà in skateboard? Invece è fra i pochi motorizzati: guida un’Alfa 166 grigia (modello e colore paiono dettagli fondamentali in giornate così). E allora sotto coi particolari: conduce la moglie vestita di scuro e i figli tricolore, i due maschietti si sono spartiti il cardigan verde e quello rosso, la femminuccia ha la camicia bianca.
Dentro al palazzo, nel salone delle feste, ci si disputa il mezzo metro. Accalcati dietro paletti d’ottone con cordone purpureo - e dietro alla foresta di telecamere - in punta di piedi si cerca di sbirciare. Si fa la classifica dei ministri più emozionati, più alti, più bassi, più biondi. Spettatori di una cerimonia che non offre nulla se non la frase protocollare («giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione»), ripetuta senza digressioni e rare sbavature ministro dopo ministro, ci ritroviamo a commentare abbigliamento e acconciature. È il festival di Sanremo perenne. Si ricorre alle catalogazioni del pantone per precisare sulle tinte degli abiti: glicine, blu ceruleo, tenné. Qualcuno più terra terra osserva che Maria Elena Boschi è vestita come un supereroe della Marvel, tipo Capitan America. Mica è esercizio di maschilismo: sono soprattutto le donne a commentare le donne. Con occhio a micrometro sono in grado di stabilire a trenta metri di distanza se il tacco sia otto o dieci o dodici. Conoscono il protocollo e impallidiscono per gli stivali di Maria Carmela Lanzetta o per il punto salmone della camicia di Federica Mogherini.
Eppure qui la cifra è la frugalitè, è il batticuore - a proposito di Sanremo universale - e appena usciti i ministri in gran parte sapranno dire quello: «Che emozione». «Ero molto emozionata», dirà Federica Guidi. «Ero più che emozionata», dirà Stefania Giannini. «Non succede mica tutti giorni», dirà Marianna Madia. Lì, nel salone, sorridevano d’imbarazzo. Si guardavano l’uno con l’altro senza spiccicare parola, e forse coi minuti hanno preso coraggio alla vista di quel discolo incontenibile del premier, che in garrulo trastullo rideva e salutava qui e là. Angelino Alfano sedeva quasi annoiato, con la noncuranza di chi ci è già passato parecchie volte (in effetti è la terza e la prima fu sei anni fa). Il migliore in assoluto era Giuliano Poletti, il boss delle cooperative rosse, magari non la trasfigurazione in essere umano della saettante energia, ma della quotidiana fatica senz’altro: «Ho cominciato a lavorare nei campi a sei anni, io», ha detto arrivando. Mica ha paura di darci dentro. Ha fatto ingresso al Quirinale con la cravatta regimental-matrimonio infilata dentro la camicia fra bottone e bottone, per non farla volare via al vento. E poi se n’è ripartito salutando in modo spiccio e sanguigno.
Si era appena conclusa la trafila delle foto commemorative. Il drappello si è avviato poco compatto, come i ciclisti nel tappone, verso palazzo Chigi per il primo Consiglio dei ministri. I più a piedi, com’erano arrivati. L’assalto giornalistico guadagnava alle cronache di giornata frasi agonistiche («abbiamo già cominciato a lavorare», Graziano Delrio) o da diporto («io a Matteo andremo a correre a Villa Borghese», Maurizio Lupi) o prestampate («la cultura deve essere la più grande industria del paese», Franceschini) o fiabesche («la ricerca finora è stata Cenerentola, facciamola principessa»). Il finale è per l’incantatore fiorentino che fa la citazione dotta: «Rimarremo noi stessi, liberi e semplici». Praticamente, il campionato è ancora lungo.